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1998

(1996 - 1997 - 1998 - 1999 - 2000)

 

1.1.1998. C’è in Kafka un’attenzione esplicita alla diegesi (basti citare la questione della denominazione dei familiari prima e dopo la morte di Gregor).

Walter Pater sulla morte di Winckelmann (a Trieste il 6.6.1768): «Fu come se gli dei, a ricompensa della devozione che aveva loro dimostrato, gli avessero dato una morte che per sveltezza e circostanze avrebbe forse lui stesso desiderato» (cit. da B. D. Schwartz, Pasolini Requiem, Venezia 1995, p. 41).

9.1.1998. La biblioteca della Normale in orario di chiusura. La permanenza impossibile nel tempo, che sola giustificherebbe gli ideali ascetici.

Senso di inquietudine quando improvvisamente ci si rende conto che nessuno comprende di cosa si stia discutendo. (E la memoria informa che fino a un momento fa neppure noi lo comprendevamo, e dunque tutto procedeva secondo una sorta di automatismo. Ma anche questa è un’illusione, perché l’automatismo continua, rispecchiato nella ricorsività).

11.1.1998. C’è analogia fra la rinuncia in Wittgenstein al dualismo conoscitivo (su cui cfr. A. Gargani, Il coraggio di essere, Bari 1992, pp. 171-177) e l’impossibilità, in Kafka, di una interpretazione letteraria tradizionale, fondata sul dualismo testo / intenzione autoriale.

 28.1.1998. Wittgenstein: la filosofia come un gomitolo di lana (Lectures on the Foundation’s of Mathematics, Ithaca 1976, p. 220).

 Il fatto che la filosofia sia descrittiva e non deduttiva (Notes on Logic, p.106) è un’ulteriore giustificazione della forma aforismatica.

 3.2.1998. L’abitudine alla storia acuisce la percezione della brevità della vita.

 Meleagro: «„me…rw d™ tuce‹n ¢klinšoj fil…aj» (Ant. Pal., 12, 58).

 Che il principio di identità sia snaturante è una diversa formulazione del principio wittgensteiniano secondo cui la necessità riguarda il linguaggio e non il mondo (cfr. PU 216, in Wittgenstein, a cura di D. Marconi, Bari 1997, p. 98).

 4.2.1998. Ieri, St. a scatti, in B/N. Sorridere con gesto abituale e apparentemente involontario, anche se è evidente che il sapersi osservati influenza. Come per ogni cosa, anche in questi casi vale la solita regola per cui è logicamente impossibile conoscere ciò in cui si sta dentro (anzi, detto più precisamente, ciò di cui si fa parte).

 7.2.1998. A proposito di alcuni film ungheresi. Non c’è più spazio, nel nostro modo di sentire, per la tristezza simpatetica, per la commiserazione che si autogiustifica come studio sociale. Viviamo invece nella dicotomia del teatro antico, fra commedia e tragedia intese in senso classico. Fra il Witz e la sventura abbiamo eliminato ogni lacrimosità borghese, ogni stucchevole sfumatura intermedia.

 Il riconoscimento sociale della bellezza è uno specchio che moltiplica l’emozione.

 «Meditatio mortis initium sapientiae»: vero, ma da intendersi solo nell’ambito della teoresi e non della filosofia morale: come centralità delle categorie logiche rispetto a quelle emotive.

 8.2.1998. «Sia il tuo parlare sì, sì, no, no». Il fatto è che la verità non arriva indenne alla meta. Fra il primo sì e il secondo c’è uno specchio deformante.

 10.2.1998. La superstizione sembra un residuo animistico; ma nella scorata ambiguità della fede che le prestiamo non restiamo stupiti quando la statistica fa valere le sue ragioni. E quando il reale non obbedisce al rito, è la normalità; siamo allora indotti a riflettere sull’uomo l’animismo deluso, attribuendo anche al linguaggio comunicativo carattere di rituale inefficace.

 20.2.1998. Analogia fra l’eros e la gefirofobia. La morte per precipitazione non è una realtà ma una metafora, e anzi qualcosa di più, è un nesso profondo dell’inconscio (forse per questo è così frequente nei sogni, e ad essa è collegata una specie di soddisfazione onirica).

 La frequenza con cui un pensiero «torna in mente» è un buon indice della sua congruità nascosta, che poi è anche come dire della sua capacità di adattarsi alla griglia del reale.

 27.2.1998. Ciò che viene scotomizzato dall’eroe tristaniano, e cioè il numero esorbitante dei possibili oggetti d’amore – esorbitante e dunque infinito rispetto alla brevità della vita umana – proprio questo è al centro della incessante consapevolezza di Don Giovanni. Si tratta quindi anche di un livello superiore di conoscenza teoretica, un voler essere sempre presenti a se stessi senza abbandonarsi al sentimento, il quale è, per l’appunto, una mutilazione della coscienza logica. Nel riconoscimento della categoria della molteplicità (la quale è sempre più realistica di ogni patologia dell’unico-assoluto) si riconosce l’impronta del razionalismo settecentesco, ed è proprio questa connotazione che viene percepita dallo spettatore nel buon senso di Don Giovanni (la scena nel cimitero è solo un corollario del suo stile più quotidiano). Il pathos, che viene cacciato dal territorio dell’eros inteso come ipseità, si recupera però in questo ricordo incessante della molteplicità umana. Sempre, dovunque, in ogni luogo e istante della giornata: è un’inquietudine che si modella sul tempo che scorre parallelo alla coscienza.

 28.2.1998. A differenza di Tristano, Don Giovanni non ha bisogno di filtri per diventare quello che è (in senso nietzschiano); questo perché nel suo caso l’interazione con il reale viene intensificata e non annullata nell’io, come è invece abitudine di Tristano. Ed è per operare l’annullamento che si ricorre al mezzo mitico del filtro.

 Fra l’importanza che si attribuisce alle cose e la fede nella natura di segno degli oggetti (linguistici e non) c’è diretta relazione. L’enfasi altro non è che un trucco della semantica.

 19.3.1998. Il difetto maggiore di una critica è lasciare le cose come stanno, la conclamata inefficacia, la descrizione del prevedibile.

 20.3.1998.  In una realtà che, per quanto illimitata, è sempre più finita, l’unica infinitezza residua, per così dire trasversale, è quella della ricerca scientifica. La «fine della fisica» sembra ripetere lo stesso miraggio che aveva ingannato Newton; la trascendenza è il limite all’infinito della ricerca. E’ vero però che anche questa è solo una scommessa.

 Iscrizione funeraria a Napoli: «Antipatra dulcis tua, hic so et non so» (CIL, X, 2070).

 22.3.1998. Persino l’idea di certezza, che apparentemente pertiene alla logica, è in realtà viziata e per certi aspetti anche fondata sull’emotività. Dato che la realtà precede le forme logiche, la certezza logica implica una volontà snaturante di giudizio; ed è per questo che la connotazione stessa dell’idea di «certezza» è positiva e non neutra (affermare l’esistenza di un oggetto è cioè più gratificante che non, ad esempio, constatare il risultato di una moltiplicazione; e questo anche perché nella valutazione di certezza affermiamo l’esistenza dell’io. E, come al solito, in questa implicita affermazione si nasconde il granello di polvere dell’emozione – come anche il rischio permanente di invalidazione dell’affermazione stessa).

 25.3.1998. «Siamo sempre alla fine della storia»: affermazione rigorosamente vera, a condizione di svuotarla di ogni enfasi emotiva e di ricondurla al suo ambito più specifico, che è quello della teoresi: siamo al punto di arrivo del tempo, in ogni istante. La proposizione tuttavia è vera solidalmente all’individuo e alla sua prospettiva, e non al di fuori; è il solito movimento irriflesso che porta a fissare coordinate in rapporto a se stessi, come se fossimo al di fuori del piano; e invece non c’è alternativa dentro-fuori, e dunque di conseguenza non esiste alcuna coordinata.

 31.3.1998. Acqua verde e profonda, freddissima, e intenso odore di mare.

 3.4.1998. E’ il segmento di tempo a creare la percezione illusoria di una permanenza nel tempo. La funesta capacità di isolare una sezione di eventi raggruppati cronologicamente – una capacità resa possibile dalla grande ingannatrice, la memoria – ci convince che nulla sta passando, ci autorizza a credere che è sempre «oggi». E’ un vero errore logico, che si rivela come tale nel momento in cui ci rendiamo conto che il segmento è abbreviabile ad infinitum, in una vertiginosa rincorsa dell’istante. Il segmento lungo invece ci rassicura sulla «naturalezza» del continuum.

 7.4.1998. Nella pioggia, l’insetto che colpisce il parabrezza lasciando una macchia fra due passaggi del tergicristallo. Probabilmente è solo con il passare degli anni che si acquisisce il rigore dell’osservazione imparziale, rinunciando ad ogni emozione che non sia la passione per il reale così com’è. Per una simile ascesi della verità sono di gran lunga troppo giovane.

 8.4.1998. La questione del moto relativo dei corpi, con Is. Ciò che è difficile accettare: che la realtà non sia ciò che è percepito come tale, bensì solo la preferibile per la sua semplicità fra le molte descrizioni possibili. Ogni corpo ha il suo moto, il complesso dei moti deve essere descritto nella forma più semplice.

 10.4.1998. Kafka è realmente termine di paragone, perché tutto sembra enfatico rispetto alla sua scrittura. Il confronto smaschera la letteratura troppo arrotondata, la letteratura da cantanti.

 11.4.1998. Se si intende la classicità come fissazione all’interno del canone, come stabile acquisizione del metodo interpretativo (all’incirca ciò che Kirkegaard vedeva nel Don Giovanni mozartiano, la cui funzione era ormai solo quella di essere goduto da una generazione dopo l’altra), allora l’opera kafkiana è ancora distante dall’essere integrata nella classicità. La nostra coscienza della specificità kafkiana è ancora troppo emergente per essere fissata in forma utilizzabile; la semplice domanda «come leggere questo testo» non può essere risposta con gli strumenti tradizionali, ed esige una modalità interpretativa radicalmente altra (non mistica, ma che unisca razionalità e alterità). Per l’ostacolo costituito dalla ricorsività, l’interpretazione è sempre in ritardo rispetto all’opera, la grandezza del contemporaneo deve necessariamente sfuggire all’interprete, e questo non per il luogo comune che vuole la grandezza sempre incompresa, ma in forza di una regola logica per la quale non è possibile interpretare ciò di cui si fa parte. Questo è per Kafka tanto vero, che abbiamo avuto bisogno di quasi un secolo per capire che gli strumenti interpretativi tradizionali erano idonei alla letteratura prekafkiana, ma fallivano l’essenziale nel caso di Kafka: da qui la molteplicità delle interpretazioni, che, come si legge nello stesso Kafka, è solo espressione di disperazione dell’interprete. E’ dunque la nostra insufficienza ermeneutica a mantenere Kafka al riparo dalla classicità.

 Fedro, l’assenza del narratore (J. Derrida, La scrittura e la differenza, Torino 1971, p. 81), lo scrittore sulla soglia.

 12.4.1998. «Ex judaeis salus». Il superamento del logos occidentale con lo strumento del pensiero semitico (J. Derrida, op. cit., p. 103) è lungi dall’essere compiuto. Ma è precisamente in questo senso che è possibile rinnovare non solo la lingua, ma l’idea stessa della possibilità di una lingua. In questo varco si colloca l’opera kafkiana, e in questa ermeneutica ancora non pensata si spiega la sua non-interpretabilità.

 13.4.1998. Il logos greco inerisce ogni minima piega del pensiero nello stesso modo in cui le strutture indoeuropee si ripetono a nostra insaputa in ogni istante del linguaggio. L’ebraismo è non solo «altro», ma è anche l’«altro con cui veniamo a contatto»; è l’occasione per una conoscenza non-indoeuropea del reale. (Ma, detto così, è già greco. Meglio: è l’occasione per una collocazione nel reale che preceda la conoscenza. E non è questo, Kafka? Il testo kafkiano è lo strumento per una fuga, finora senza successo, dalla grecità).

 Pensare il tempo come una freccia e in tre dimensioni significa già negarlo, come dimostra il caso della freccia di Zenone. Sembra un paradosso, ma nell’ebraico è proprio l’assenza dei tre tempi tradizionali che convalida tempo e movimento.

 15.4.1998. J.H. Jung-Stilling, Giovinezza di Heinrich Stilling, Firenze 1993. Trad. di M. Galli. La bellezza del grigio (pp. 58-60). Lo sforzo di questo Jung è sempre quello di elaborare la vecchiaia, alla quale si paga il tributo dell’elogio pur di mantenerla sempre altra da sé, in un futuro che si tenta di presentare come desiderabile. Alla fine, questo sforzo ha molto più peso che non il pathos della gioventù.

 Johann Hübner. Il fantasma è definito dal suo difetto fisico, come anticamente il dio (come Wotan, è privo di un occhio). Sono il senso di colpa nei confronti dello spettro e la percezione della sua inferiorità che colorano di sé il sentimento unheimlich.

 25.4.1998. Se il significato di una proposizione è il suo uso, il significato di un libro o di un qualunque oggetto culturale è la posizione che viene ad assumere nella rete di esperienza pragmatica non testuale della vita di chi lo fruisce. E’ per questo che la volontaria deafferentazione di chi sceglie una cultura da biblioteca è per forza di cose più sterile di chi utilizza il libro – il testo – come un segnavia al confine fra esperienze non verbali. L’erudizione che si rifiuta alla geografia induce a creare un mondo parallelo che è sempre più (more and more) impermeabile al mondo reale. (Intendendo con geografia la integrale curiosità percettiva nei confronti del mondo fisico, e con ciò anche la rinuncia a una selezione delle percezioni sulla base della propria superiorità conoscitiva).

 L’ideale ascetico come lo intese Nietzsche è seducente e ingannevole per lo stesso motivo: perché ritiene che esista, delle cose, un significato in sé, mentre in realtà tutto è pragmatica oppure non-senso.

 29.4.1998. Il gioco linguistico della massima precisione condivisa. Si può pensare al caso di due amici particolarmente pedanti che si correggano continuamente a vicenda nell’intento di rendere la proposizione sempre più precisa e conforme all’intenzione. La regola stabilisce che il gioco termina quando entrambi condividono una forma conclusiva della proposizione. Va osservato che il gioco non è mai simmetrico, perché il modello della proposizione è nella mente di uno solo dei due: è come se i contendenti si scegliessero rispettivamente un attacco e una difesa. Il fatto che la precisione debba essere condivisa comporta che il risultato finale sia dipendente dai due giocatori: se un terzo li ascoltasse, forse non sarebbe d’accordo sulla forma finale della proposizione. Inoltre c’è da chiedersi se aumentando il numero dei contendenti diminuisca il margine di ambiguità della proposizione conclusiva, in quanto necessariamente essa debba appoggiarsi su significati univoci e condivisi (e allora un simile gioco di precisione e perspicuità potrebbe forse chiamarsi, per molti versi, la letteratura).

 La volontà filosofica di capire il reale nella sua oggettività, al riparo dall’emozione e dalla storia (volontà che spesso assume l’aspetto dell’indagine logica), altro non è che lo sforzo di trovare una struttura grammaticale che si adatti forzatamente a ciò che la ricorsività garantisce come extragrammaticale per principio.

 30.4.1998. Lisbona. Un cane alla catena nel cortile percorre il suo semicerchio di libertà. Addestrato dall’esperienza, lo percorre con precisione, senza mai strattonare la catena.

 1.5.1998. Le strutture che più profondamente appartengono a una lingua sono quelle che tendono a conguagliarsi per analogia;  quelle sono le lenti attraverso cui il parlante vede la realtà, e dunque esse sono anche la principale fonte di errore e fraintendimento linguistico. Un censimento di queste strutture nelle lingue indoeuropee darebbe buoni indizi alla filosofia (cfr. Levinas).

 L’idea di causalità è sempre collegata alla fede nell’analogia e nella necessità.

 In treno: «Quand’ero giovane mi garbava la roba scura, ora che son vecchia la roba chiara. Vedrai e ti farà anche a te lo stesso».

 9.5.1998. Caratteristica dell’esperienza estrema è la dissoluzione dell’io. «A chi sta succedendo tutto ciò?».

 Semantica dell’oggetto kafkiano. Un puntaspilli, una camicetta stesa alla finestra, una cornice, un binocolo – l’oggetto viene additato ma non spiegato, e assume così una luce mediana che ci dà l’impressione di vedere una cosa impossibile. La definizione ostensiva annienta, in Kafka, il significato d’uso. L’oggetto è radicalmente svuotato del suo significato di posizione nel mondo reale e ne acquisisce invece un altro nello spazio letterario, dove infatti ritorna periodicamente, non però di solito nell’esperienza vissuta, ma nel racconto, come ad accreditare una significanza della quale ci sfugge il referente – né potrebbe essere altrimenti, perché le convenzioni del mondo fittizio precedono cronologicamente il punto di vista narrativo: tutto andrebbe spiegato, ma non c’è tempo, e poi nessuna spiegazione sarebbe sufficiente, perché i linguaggi sono tutti altri, nessuno può chiarire le idee all’agrimensore K., perché lui parla una specie di linguaggio privato. «Tutti capiscono tranne me». E’ anche la posizione di Josef K., sottoposto allo sguardo del sorvegliante, sguardo «evidentemente» carico di un significato che a K. sfugge. In questo nuovo rapporto con le leggi d’uso si annienta il logos come forma di appropriazione: K. si colloca nella posizione prestabilita per lui, posizione cui si adatta senza capirla, per così dire automaticamente. E d’altronde non importa neppure che capisca, perché ogni linguaggio diventa per definizione un linguaggio privato – che è come dire un semplice flatus vocis.

 10.5.1998. Lo stoicismo va recuperato nell’amore per l’indifferenza. La passione da sopprimere è l’emozione, anche se solo nel campo ristretto della filosofia.

 Mica si può filosofare tutto il giorno. La filosofia è riservata agli attimi di lucidità totale e priva di emozioni; nel tempo rimanente pare legittimo abbandonarsi a se stessi e al proprio desiderio (e quindi alla storia).

 La prima applicazione (la prima formulazione) di un concetto è priva di senso; solo la seconda, nelle stesse circostanze, rende la prima paradigmatica e dunque normativa.

 12.5.1988. Il momento in cui non ci si sente più «dopo la fine della storia», ma in qualche modo dentro di essa (perché si ha ancora qualcosa da dire).  E’ però un momento da raggiungere solo dopo aver attraversato la storia (e in direzione anterograda).

 «Un giorno sapremo forse che non c’è mai stata arte, ma soltanto medicina». (Le Clézio, cit. in G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Torino 1996, p. 178, ed or. 1991).

 14.5.1998. Filosofia e storia della filosofia si guardano in cagnesco, e si negano a vicenda nei loro fondamenti. Solo una delle due può esistere, se è vera l’una, l’altra è priva di senso.

 18.5.1998. «Pesciolino rosso

rosso pesciolino,

con il mio coltellino a tre tagli ti faccio morire

con le mie dita ti voglio squarciare

che sia finito il tuo muto rotare»

     (O. Kokoschka, Die träumenden Knaben, 1908)

 22.5.1998. Non – come credeva Borges – il concetto di infinito (che è forse contraddittorio), ma il concetto di tempo si mescola a ogni riflessione sulla realtà, falsificandola; e il mezzo che utilizza per camuffarsi è l’idea di causalità. Non esiste causalità senza successione. (3.8.1998: Hume in questo, naturalmente; senza però ombra di scetticismo.)

 23.5.1998. In che modo la qualità letteraria di un testo filosofico (ad esempio, in maniera eccelsa, Wittgenstein) può avere un peso decisivo nel risolvere i problemi trattati? Lo ha perché le espressioni culturalmente condivise comprimono in sé una quantità di senso che una teoria logica impiegherebbe molte pagine a documentare in forma esauriente. La misura di quella compressione corrisponde all’ampiezza dell’aura connotativa (che agisce in modo analogo a un campo gravitazionale) e dunque anche alla forza assertiva della proposizione (così per esempio nella definizione wittgensteiniana di «problema filosofico»). Certo, qui c’è tuttavia anche una possibilità di errore.

 E’ questo anche il motivo per cui tanto spesso i testi di filosofia morale stimolano a una rigorosa teoresi più dei testi teoretici veri e propri. Un testo compresso spinge il lettore a «chiarirsi» più di uno esplicito in ogni dettaglio.

 Nel momento senza ore della notte: ¢wrÒnukton (secondo Nietzsche: «™n ¢wronukt…, vedi FP 1885-87, p. 166), da Aesch., Coeph. 34.

 25.5.1998. L’esistenza e la verità sembrano avere solo questo in comune, di essere due predicati grammaticalmente fuorvianti.

 26.5.1998. Calafuria. La spuma che si origina per la presa dell’onda sullo scoglio. Questa specie di violenza innocente di se stessa ha per noi una connotazione positiva, ci sembra un indizio di entropia ancora bassa, e in un certo senso è, su un altro piano rispetto a quello dell’immagine in sé, una manifestazione di ordine.

 29.5.1998. «Il suo pallor, le lacrime». La pelle di donna Elvira e quella, presumibilmente più scura, di Zerlina. La perfetta equivalenza fra le due per l’eros interclassista di don Giovanni.

 Don Giovanni non rifugge dallo stupro perché percepisce con chiarezza il lato gerarchico dell’eros. E’ sempre una questione di «avere la meglio».

 31.5.1998. «Un bene / che lungamente la nostr’alma disìa». Rispetto a ogni altro modus vivendi, nobile o borghese, don Giovanni si distingue per il desiderio breve. Il tempo lungo è per lui impensabile perché la coscienza della brevità complessiva dell’esperienza umana è in lui così forte, che lo spinge piuttosto alla suddivisione infinita dell’istante, secondo il noto procedimento, logicamente impossibile ma emotivamente ben motivato, della reductio ad infinitum del tempo (impossibile perché richiede anch’esso un tempo finito per essere accertato). Il tempo lungo di donn’Anna e don Ottavio invece definisce insieme la loro classe sociale e la loro stupidità.

 Il santo che da secoli alza la spada sul pinnacolo più alto di una chiesa di Vicenza, mentre comincia a piovere. La serenità apparente nel vedere davanti a sé il tempo trascorso come se fosse fermo e determinato, e nel percepire un futuro analogo al passato.

 1.6.1998. La radicalità dello sguardo filosofico non è e non può essere sempre allo stesso livello. L’itinerario si muove dalla filosofia che soppesa e distribuisce i valori, attraverso quella che nega i valori - ultimo dei quali è sempre il linguaggio -  fino al concetto ultimo di dissoluzione dell’io, inosservabile come la Medusa.

 6.6.1998. Il paradosso del linguaggio consiste nel fatto che è il vero tratto distintivo rispetto alle altre specie: ma per riconoscere ciò bisognerebbe accettarne il valore di segno.

 10.6.1998. Non il mondo, ma la successione temporale del mondo è un evento mentale.

 29.7.1998. La riflessione dell’ultimo mese: superficiale, ansiosa, fugace, troppo debole per arrivare alla scrittura; debolezza che si autogiustifica con la sfiducia nella scrittura. Però, solo la scrittura potrebbe non dico salvare, ma regalare la speranza di salvezza; oppure nemmeno questo, ma la capacità di illudersi che una speranza di salvezza potrà esistere in futuro, e questa capacità di illusione consente, almeno temporaneamente, di rafforzarsi.

 Comunque, fra le molte cose da ricordare: l’intenso odore di tigli in un parco di Milano, «per favòre» con accento piemontese, il luogo «estremo», lacrime immeritate e inaspettate. E al contrario: inattesa sfiducia verso se stessi, incapacità di venire a capo della contraddizione costituita dalle buone ragioni di chi contesta la tua ragionevolezza.

 Ma forse, è vero anche questo: che periodicamente ci si deve dedicare a una forma di vita emotiva prevalentemente disforica che indebolisce la volontà di teoresi – e questa è un’altra conseguenza del fatto che dove c’è emozione c’è errore (l’emozione determina non solo la storicità delle idee, ma al contempo anche la loro erroneità). E’ significativo però che siano soprattutto gli stati disforici – e non quelli opposti di soddisfazione narcisistica – a determinare l’aridità e/o l’errore.

 Senza eccezioni, l’ansia riempie lo spazio lasciato vuoto dalla scrittura.

 31.7.1998. Poiché sembra inevitabile colorare emotivamente la filosofia (o l’esposizione della filosofia), facciamo almeno in modo che il colore sia quello, leggermente depresso, della nuda brutalità del reale. Fino a tanto e non più.

 3.8.1998. A motivo della sua ricorsività, la gnoseologia dovrebbe essere l’unico campo intoccabile, ciò su cui per necessità logica non possiamo indagare; conoscere gli strumenti della conoscenza (e quindi il riferimento, la teoria della verità e molti altri pozzi senza fondo) falsifica senza ritorno ogni filosofia fondazionistica. D’altra parte, non è così facile giustificare questa esclusione; tanto meno convincere intuitivamente che escludere è necessario.

 5.8.1998. La casa demolita. Esiste un’ansia da alterazione della geografia che mette improvvisamente in luce quanto siano forti i legami con l’aspetto fisico del mondo in cui abbiamo messo radici; e tanto più quando questo aspetto non è naturale ma opera nostra. (Una casa demolita è: scomparsa di una tradizione recepita, percezione della insufficienza del ricordo, ritorno delle emozioni all’indifferenza, definitivo annullamento di una storia che già era dimenticata dalle persone, e ora lo è anche dalle pietre. Prova sicura della natura di sintassi dell’esistenza umana, che è imprescindibile dal contesto e che dunque nel contesto per un breve periodo sopravvive).

 A proposito della nota del 22.5: esempio elementare della contaminazione da parte del concetto di tempo è il paradosso scettico di Hume (e naturalmente anche quello di Wittgenstein, sia o non sia inteso come lo intende Kripke).

 9.8.1988. L’«ostacolo corrente» all’interpretazione di Kafka è la dicotomia fra la persona ordinaria del critico e la sua maschera accademica. La necessità, nel contributo critico, di adottare il gioco linguistico ad esso proprio vanifica gli sforzi di centrare l’essenziale, che pure il critico afferra e comprende in qualità appunto di persona ordinaria. Da qui gli sforzi frustranti e mai definitivi di «interpretare», da qui l’impressione che mai nessuno prima abbia «detto l’essenziale»: la maschera infatti non azzera la persona ordinaria, ma soltanto il suo linguaggio. Invece è proprio quel linguaggio che potrebbe intrattenere rapporti con il testo kafkiano. (Da questa conclusione però bisogna arrivare alla definizione non solo di linguaggio ordinario, ma anche a chiarire come sia stato possibile che questo linguaggio diventasse il nocciolo di un testo letterario, modificandone i parametri in modo così profondo da renderlo al contempo efficace e sfuggente per decenni di critica).

 La Geschwindigkeit di Goethe come elemento che gli consentiva di sfuggire alla formalizzazione borghese (lettera alla madre dell’11.8.1781).

 10.8.1998. Beethoven, sonata per pianoforte op.2 n.3. L’innovazione origina da una diversa percezione dell’identica struttura: lo stesso accordo varia il suo significato se lo pensiamo scritto da un compositore anziché da un altro (lo stesso per la parola letteraria, ma con premesse diverse per il diverso rapporto fra lingua ed eventi extraletterari). L’innovazione quindi non è intenzionale, perché non lo è la prima – paradigmatica – diversa percezione della struttura nel momento in cui viene ereditata dalla tradizione; inoltre, proprio perché attraversa questo vestibolo di apparente conservazione, è norma che l’innovazione sintattica preceda quella morfologica.

 17.8.1998. Il figlio «orgoglio dei suoi genitori»: in Das Urteil, è la maschera di Georg in tutta la prima sezione, e culmina nella negazione finale:«Cari genitori, pure vi ho sempre amati!» (R, 154); in Die Verwandlung, il figlio modello – ciò che Gregor, così simile anche foneticamente a Georg, è realmente secondo qualunque criterio di giudizio borghese – appare distanziato e reificato nella forma spettrale della fotografia: «Proprio alla parete di faccia era appesa una fotografia di Gregorio, sottotenente, al tempo del suo servizio militare, in una posa – la mano alla spada, un sorriso spensierato – che ispirava rispetto per lui e per l’uniforme» (R, 172).

 18.8.1998. Se per il testo kafkiano si rende necessaria una ermeneutica radicalmente diversa, bisogna pure che in questo progetto sia presente uno strumento che consenta, se non di interpretare nel senso tradizionale, almeno di prendere contatto con la pluralità dei testi; che non si limiti cioè a veicolare la diversità kafkiana ma chiarisca perché sono necessari testi differenti e non un unico testo - che sarebbe propriamente interminabile (come è stato per molti versi il caso di Proust). Come nella teologia trinitaria, la pluralità consente l’interrelazione; e cioè il collegamento spontaneo fra loci testuali; una specie di libera associazione di tipo freudiano, che però a differenza di quella si realizza fra sogno e sogno e non fra sogno e realtà. Il tramite della associazione è l’oggetto, all’interno dello stesso testo e fra testi differenti (includendo fra gli oggetti anche, per esempio, i gesti: così il gesto di Amalia che chiude con violenza la finestra. Oppure i concetti, le frasi che si ripetono nella loro sintassi).

 19.8.1998. La buona educazione di Kafka, il tono di voce mai aggressivo o didascalico, ma – come dire – partecipe della ragionevolezza borghese proprio quando l’alterazione del corpo e lo stravolgimento dei rapporti umani contraddicono tale ragionevolezza con la massima evidenza.

 Ciò di cui si va in cerca non è l’ebraismo storicizzato nella sua tradizione culturale e filosofica, come lo si legge per esempio in Hanna Arendt o in Gerschom Scholem; tutto ciò infatti è contaminato dalla grecità; o per dir meglio è intenzionalmente formulato in maniera tale che possa essere recepito anche dal goy, è una specie di servizio divulgativo a vantaggio del gentile.  Invece abbiamo bisogno dell’elemento semitico, del nocciolo duro e orientale del semitismo, di quella logica «esterna» che ha preceduto l’esilio e non ha nessun punto di contatto con il logos indoeuropeo. Non quindi l’intellettuale ebreo che scrive in una lingua europea; e nemmeno la cultura jiddisch, che è una formazione di compromesso resa necessaria dall’esilio; ma l’oscurità sconnessa dei testi in ebraico/aramaico, la logica stravolta della mistica, quando non sia mistica in senso occidentale ma emersione di strutture logiche razionali partecipi di una razionalità non aristotelica.

 E’ evidente che l’amico assente nella Condanna rappresenta l’Io celibe di Georg, respinto in Russia dalla forza della rimozione e reso fantasmatico dalla apparente normalizzazione borghese della sua vita: il successo negli affari, il fidanzamento con Frieda (la quale però lucidamente riconosce il nemico: «Se avevi degli amici come lui, Georg, non avresti dovuto neanche fidanzarti.» R, 144). Ciò che è meno immediato però è interpretare l’interpretazione di Kafka, che definisce l’amico «il collegamento fra padre e figlio, […] la loro massima comunione» (CD, 376). Quel rapporto è in effetti sustanziato dalla coincidenza di gerarchia e proibizione: Tu non ti sposerai. E questo è pienamente edipico, e in sé coerente. Ma la proibizione opera anche in sinergia con il desiderio rimosso che vede nell’ideale ascetico del celibato la condizione unica e necessaria che consenta il senso, cioè la scrittura, la produzione di testo. Vi è dunque coincidenza simbolica fra queste due forze, che sono provenienti da sponde opposte – padre e figlio – ma coagenti nei loro obiettivi: la proibizione edipica del matrimonio e il desiderio rimosso di un ideale ascetico incompatibile con il matrimonio – e il prodotto della condensazione di queste due direttive è la figura dell’amico, che riemerge dall’inconscio come un révenant dotato di forza moltiplicata.

 20.8.1998. Cosa c’è di realmente onirico nel sogno che inizia Il posto delle fragole? Non l’orologio senza lancette, né il doppio nel feretro: espedienti simbolici troppo elementari per essere realmente onirici. Il linguaggio del sogno è in scena invece quando la ruota del carro urta contro il lampione; e precisamente nel fatto che continua a urtare si sottolinea il suo carattere di atto mancato, la cui ripetizione ossessiva scandisce il crescere dell’angoscia. Qui opera realmente la condensazione, e nella caduta del feretro si attua l’abbassamento della convenzione sociale a inconveniente quotidiano, che è l’esito della concretezza di cui spesso il linguaggio onirico dà prova (caratteristica quest’ultima che è entrata in dose massiccia nel testo kafkiano).

 «In negozio è tutta un’altra persona». La debolezza del padre è legata alla sua dimensione privata.

 25.8.1998. La «svista d’autore» ha sempre senso (cfr. il saggio di E. De Angelis Cogenza e resistenza nei testi narrativi, in Perorazioni metafisiche, Pisa 1995, p. 45-60). Ma nel caso di Kafka ne ha di meno e di più: di meno, perché il fenomeno è così diffuso da perdere il significato di lapsus significativo; di più, perché acquisisce un carattere strutturale che ne denuncia la parentela con il lavoro onirico.

 «Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possiede né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso “sfida”, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male è frustrato perché non trova nulla». (H. Arendt a G. Scholem, in Ebraismo e modernità, Milano 1993, p. 227).

 27.8.1998. Il testo kafkiano è suscettibile di infinite interpretazioni nello stesso senso in cui lo è la Torah, fiamma che non ha unica forma e unico colore (cfr. Giqatilla, Ša‘are Orah, cit. da G. Scholem in Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, p. 65-66)  nella lettura dei mistici cabbalistici; lo è come un testo consonantico non vocalizzato.

 La scandalosa concretezza del tossicodipendente, la sua spregiudicatezza che individua tutto come un mezzo per ottenere i suoi fini, la totale insensibilità al valore in sé (che poi è il valore del decoro borghese) – tutto ciò non è poi così lontano dalla volontà ebraica di ortoprassia, da quella attenzione al quotidiano che è perfettamente e cocciutamente impermeabile alla propaganda dei valori condivisi dalla comunità cristiana. In entrambi i casi ciò che appare come una miopia morale genera un sentimento di infastidita estraneità.

 Coesiste nella mistica ebraica l’astrazione paranoica del simbolo e una curiosa attenzione agli aspetti meccanici del divino, ciò che Scholem chiama l’«aspetto materialista della Qabbalah» (cit., p. 95-96). Anche in questo caso l’istinto è quello di abbassare il divino alla quotidianità.

 La natura scritturale del testo kafkiano: già ben intuita da Scholem nella decima tesi astorica (cit., p. 101-102).

 31.8.1998. «Mi sembra un sogno». L’espressione, logorata dal linguaggio ordinario, ha un senso letterale in quei momenti in cui davanti a un paesaggio, a un individuo, a una frase, la censura si allenta e consente la parziale emersione delle catene associative, come se la realtà si fosse fatta carico del lavoro onirico e a noi rimanesse il compito di percepire la valenza libidica.

 2.9.1998. I due lati di casa Bendemann: il fiume e la città. I due scenari sono resi congruenti dal paesaggio praghese (e, ancor più meticolosamente, dalla collocazione nella Niklasstrasse), ma nello stesso tempo rendono conto della mise en scène operata dall’inconscio creativo. L’accumularsi frenetico di elementi della quotidianità cittadina ha lo stesso senso dell’umorismo acido di certi sogni autolesionisti.

 «Scoprire la nudità del padre». Il divieto della Genesi si replica in ogni figura carica di autorità posta nella peggiore condizione di debolezza, quella della nudità creaturale: così ad esempio le gambe tremanti dell’avvocato Huld. Certo però la rappresentazione della Condanna è la più diretta.

 L’inconfutabile e insensata verità dello scetticismo, del tutto inutilizzabile da parte delle persone serie, ci lascia però in eredità il più vero, il più profondo, il più onesto pathos filosofico.

 3.9.1998. L’enfasi con cui Nietzsche, specialmente negli ultimi anni, accoglieva i propri pensieri è il suo aspetto più zeitgemäß e consegue a una ottocentesca sopravvalutazione della storia. Non si capisce come un pensiero (ad esempio, leterno ritorno) possa essere all‘istante riconosciuto come centrale, come fondante di una intera filosofia, senza che siano trascorsi mesi o anni dal suo concepimento.

 Imparato da A: un’incomprensione, una piccola menzogna fanno improvvisamente crescere l’estraneità là dove si era annidato un sentimento di confidenza, di familiarità. Ne derivano un gelo e un silenzio dei quali pensiamo di soffrire, ma che in realtà ci confortano nella nostra autonomia, ci spingono un passo più in là verso l’ascesi, una maggiore solitudine, un progressivo allontanamento dall’umano, un elemento in più al suo posto nello scenario che solo consente l’ebbrezza della produzione di testo.

 4.9.1998. Non leggendo il passato con gli occhi del presente, ma al contrario immaginando il disorientamento di un antico che potesse sperimentare la modernità – solo con questo capovolgimento è possibile rendersi coscienti della incommensurabilità delle culture.

 Un paragone di Al.: Kafka come l’aceto per le lumache, che le costringe a espellere tutti i secreti prima di essere buttate – ancora vive – nell’acqua bollente.

 Il nichilismo si comprende meglio quando la stagione comincia a declinare. Come ogni inizio che «ancora sopportiamo» anche questo racchiude in sé un nocciolo di intelligenza, di lucidità non infeconda.

 E l’opposizione è sempre la stessa: fra una produttiva stupidità e una lucidità infeconda.

 Finiti i titoli di coda: permane sullo schermo il nero (il «noir de cinéma», Le plaisir du texte, p. 54); l’audio viene staccato. Non subito, ma solo dopo un istante si accendono le luci, e allora si percepisce la differenza fra il piano di proiezione del film di un attimo prima – vuoto o pieno che fosse, ma pieno di senso – e il telone bianco, insignificante nel modo in cui solo la materia bruta può esserlo. Ma il segreto sta in quell’istante, prima che si accenda la luce, in cui tutto è finito, in cui lo schermo – ancora uno schermo – è nero, in una contrazione temporale che regala la ricapitolazione più intensa del film.

 8.9.1998. Ciò che il padre rimprovera al figlio nella Condanna («Questo volevi forse dirlo prima») è l’interruzione della sticomitia: i tempi dei due protagonisti si scollano, il figlio resta indietro, non si mantiene al passo.

 Ancora da A. Questo è vero del linguaggio dell’eros: che è solitario (R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Torino 1979, p. 3). Ed è solitario perché incomunicabile; ed è incomunicabile perché emotivo; ma è emotivo anche e soprattutto perché è solitario. Impossibile saltare fuori da questa pentola a pressione.

 9.9.1998. E un altro modo di definire l’oscenità (in senso barthesiano) è questo: un tentativo di rompere la solitudine del linguaggio dell’eros. Quando vengono comunicate, le parole non più rivolte a noi stessi perdono la loro forza pulsionale, non ci piacciono più (al massimo le sopportiamo nella finzione letteraria, ma non vogliamo vederci protagonisti della finzione, almeno se abbiamo buon gusto: non sta bene fare una scenata, o fare tragedie. Il linguaggio comune intuisce il parallelo fra l’osceno, la comunicazione e il teatro).

 10.9.1998. Lo scetticismo è formalmente inconfutabile ma anche inutile; e se il significato è l’uso, è anche insignificante. L’incomprensibilità del mondo esterno non è pensabile in un linguaggio dotato di senso.

 Fra le molte cose imparate da A.: le parole sono la loro carica pulsionale. Non c’è vera differenza fra linguaggio e desiderio.

 Un qualunque mutamento – una porta cambiata nell’ascensore di casa – crea disorientamento. Desiderio di una perfetta immutabilità della geografia individuale nell’arco della vita, e questo non contraddice il desiderio di novità, che deve però essere limitato al territorio extra moenia. Si cerca sempre di distinguere fra una geografia interna, possibilmente immutabile, e una esterna, possibilmente variabile nella forma più estrema.

 11.9.1998. La loquela dell’eros (Barthes, p. 129) è innescata dalla progettualità. «Quando dirò questo, mi risponderà… e allora io ribatterò…» (Non è estraneo a questa coazione mentale il piacere onirico connesso alla «risposta a tono»). Il pensiero coatto è molto più intenso se rivolto al futuro, anziché all’elaborazione del passato, operazione che si esaurisce tutto sommato in un tempo assai più breve.

 Naturalmente ciò che accomuna il lavoro onirico alla produzione estetica è la condensazione: e il «buon gusto» critico altro non è che la capacità di misurare all’istante l’entità della condensazione (essendo in possesso dei suoi presupposti).

 14.9.1998. Borges, gioventù e vecchiaia. Ciò deriva dal fatto che quando si è ancora in forze si cerca un avversario da combattere anche quando non c’è; quando le forze vengono meno, si desidera rinunciare con dignità al combattimento, fingendo che l’avversario non ci sia anche dove è più presente che mai.

 Il rischio maggiore di un testo ebraico: scambiare la sua etero-logica per linguaggio poetico, leggere come «squarcio folgorante» ciò che è invece comunicazione diretta, scandita però secondo una sequenza di passi logici che appare stravolta a chi legga il testo rimanendo prigioniero della tradizione di lettura occidentale e indoeuropea. Va osservato che esattamente lo stesso pericolo è presente nella lettura di Kafka.

 Esistono certamente differenze fra l’idea cristiana e quella ebraica di ispirazione scritturale. La Torah non è una dettatura diretta da Dio all’uomo, ma un linguaggio che precede le cose, che viene consegnato a chi lo scrive e che viene rimuginato dai giusti di ogni generazione (è una loquela, in cui la ripetizione e il commento non sono sintomi nevrotici, ma testimonianze gratificanti di ortoprassia). La venerazione di cui è oggetto la Torah è causa e non effetto del suo carattere sacro (è, come dire, anche questo un movimento del pensiero da destra a sinistra).

 Il passo dell’Eth. Nicom. in cui Aristotele giudica ridicolo (…) lodare gli dèi segna il punto più lontano della grecità dall’ebraismo. Ciò ha comunque a che fare anche con la differenza tra politeismo e monoteismo.

 L’immutabilità (G. Scholem, Zohar, Torino 1998, p. 56) è carattere fondante del testo scritturale. Alterare una sola lettera della Torah può stravolgere il senso occulto anche se lascia invariato il senso letterale (la Torah è per principio intraducibile).

 15.9.1998. «Un trono per ognuno sostenuto da quattro colonne; al trono conducono sei scalini, dunque in totale fanno dieci» (G. Scholem, cit., p. 48). E’ consentita la somma con elementi disomogenei, perché il peso dell’enunciato si esercita assai più sul numero che sulla natura degli oggetti.

 «Rispose rabbi Yehudah: Tutto ciò che l’Onnipotente compie ha un significato simbolico, che però gli uomini non colgono» (G. Scholem, cit., p. 28). Al fondo di tutto c’è questa certezza, inaccettabile per un occidentale: che un simbolo resta tale anche se nessuno può comprenderlo.

 16.9.1998. Ma se le logiche alternative non sono comunicanti, come trovare un terreno comune per descriverle? La risposta più rigorosa, se volessimo davvero essere così precisi, sarebbe: non c’è alcun terreno comune, l’una è per l’altra solo non-senso e disorientamento, e questo è tutto ciò che si può dire.

 Dunque non c’è alcuna realtà esterna comune a tutto? Certo che c’è, ma il problema è che serve un linguaggio – uno qualsiasi – per cominciare a descriverla. Se potessimo fare a meno dell’inizio (o convalidarlo con certezza) avremmo mani libere sul resto. Invece il fatto addirittura ovvio di essere condannati a un punto di vista esclude la possibilità di una descrizione comune anche a due sole logiche alternative.

 21.9.1998. A differenza della filosofia, la mistica non è incompatibile con la storia, perché non ha un oggetto esterno all’uomo e non si preoccupa di individuare un fondamento interrelazionale.

 In Mozart come in Molière (ma, per quanto riguarda la scena della lista, in tutte le versioni) è Leporello che definisce il carattere di Don Giovanni, e lo fa con l’umorismo acre del benpensante che racconta l’oltranza di un outsider. Non va mai dimenticato che nonostante le apparenze Leporello sta sempre dalla parte del moralismo borghese («Bravo! Due imprese leggiadre…» «Lasciar le donne! Pazzo!»).

 25.9.1998. Di nuovo, disforia senza parole. L’irritazione del disforico per le cose prive di pathos (o lontane dal suo pathos) assume la forma dell’impazienza: «Come posso perdere tempo con tutto ciò!».

 3.10.1998. L’altra parte, «die andere Seite», è la Sitrà Achrà cabbalistica: cfr. R. Gotschel, La Cabbalà, Firenze 1995, p. 105.

 5.10.1998. Il crash come amplificazione dell’incidente quotidiano, quale potrebbe essere l’inciampare su un gradino: è una straniata quotidianità che sfuggirà sempre alla logica occidentale. Molto avrebbe invece da dire l’ebraismo.

 Autunno come stagione stomachevole per un gusto ben educato (un criterio per misurare le persone).

 7.10.1998. S. Dopo la corsa concitata nell’itinerario labirintico della casa, usciamo in un cortile a fondo cieco, chiuso su tre lati da un muro, che confina senza interruzioni con un piccolissimo cimitero. Subito al di là del muro, un mucchio di croci di legno accatastate. E tanto forte era la coscienza di essere in un sogno, che subito dopo ho sognato di registrare il sogno precedente, e di questo restano la S. iniziale e la parola «itinerario».

 23.10.1998. La traducibilità di Kafka come esito della sua posizione fra più lingue (tedesco e ceco, ma anche ebraico). A. van Santeen, «Between two languages» in KK, 6, 60 (1998).

 27.10.1998. Il disperato si scontra sempre con questo problema: la maggior parte dell’umanità non è affatto disperata. E’ questo che richiede l’elaborazione teorica, perché altrimenti la disperazione sarebbe del tutto passiva, infeconda. E’ invece dal tentativo di mettere a fuoco questo contrasto che nasce una maggiore lucidità, come se, per vedere un dettaglio con precisione, comprendessimo solo allora il soggetto del quadro.

 Possibile difesa di una filosofia emotiva («lirica», direbbe il giovane Cioran): a differenza della teoresi pura, si affida – come il giudizio artistico – alle insondate capacità di calcolo dell’inconscio. Niente di irrazionale in questo, ma prosecuzione della ragione con altri strumenti.

 18.11.1998. L’erroneità dell’includere implicitamente l’idea di tempo in ogni concetto sarebbe forse riconosciuta da chiunque, a un esame attento – e tuttavia non potrebbe essere eliminata, perché non solo il concetto ma anche la proposizione che lo esprime include la temporalità, e non possiamo evitare di pensare per proposizioni.

 23.11.1998. Durante l’insonnia notturna, «morire, dormire». Ciò che accomuna le due esperienze, anche nel monologo, è la radicalità. Dove si insinua il sospetto dell’inesistenza dell’io, non esiste alcun possibile miglioramento della condition humaine che riesca a rovesciare una situazione in stallo; si possono rovesciare le cose negative, non quelle indifferenti. Il rovescio della neutralità è sempre la neutralità. Di fronte a questo dato estremo il progresso (la storia) perde realmente la sua prospettiva temporale, morire e dormire si assomigliano sempre più.

 Il vero problema di Odisseo non è stato superare l’incontro con le sirene; era legato allora, come avrebbe potuto scegliere diversamente. Ben diverso è stato resistere alla memoria del canto quando gli scogli erano ormai lontani, e lui era libero: come si può sopportare la nostalgia di un incontro simile senza percepire l’assenza di senso del vivere comune. La conoscenza non è mai questione di un istante, ma determina il comportamento futuro, rende impossibile il vivere «come se non si sapesse». Odisseo è stato un codardo, e la paura della morte è stata – caso quasi eccezionale – ancor più forte della nostalgia; ma allora poteva anche non farsi legare la prima volta, non si sarebbe gettato ugualmente fra le onde. Oppure il suo autocontrollo è stato divino, e allora Omero ci tace il suo vero eroismo. Oppure anche le sue orecchie erano piene di cera, e tutto è stato una commedia per rafforzare il proprio potere sui compagni. Ma allora si conclude che Odisseo è sì astuto, ma non assetato di conoscenza, e Dante all’inferno ha parlato con qualcun altro.

 25.11.1998. La previsione esatta, che anticipa ogni più piccolo dettaglio della condizione che si verificherà, è pur sempre qualcosa di radicalmente diverso dall’esperienza attuale di quella condizione. In questo scarto esperienziale si definisce il senso della prospettiva storica, l’impossibilità (o per lo meno l’inutilità) di una scienza del prevedere storico.

 La «facoltà distintiva» come qualità preminente dell’arte antica, confrontabile con il pensiero scientifico moderno (Disraeli, citato in H. von Wright, H. Wolters, Il circolo di Vienna, Parma 1992, p.110).

 2.12.1998. «Un uomo labirintico non cerca mai la verità, ma unicamente la sua Arianna» (F. Nietzsche cit. in Mitologie di Roland Barthes, Parma 1986, p. 240). Disinteresse, nei momenti disforici, verso la «verità»; ma di questo ci si rende conto solo a tratti e inaspettatamente, leggendo per esempio in un testo qualunque una frase di Nietzsche.

 4.12.1998. Tra l’altro questo significa anche: l’uomo labirintico non si occupa di teoresi, è un filosofo morale, la sua stanchezza lo guida a cercare l’equilibrio delle passioni anziché lo specchio della natura. E’ uno stoico dimezzato, ma è solo la spossatezza che lo riduce tale. Anche se forse, da un altro punto di vista, non di riduzione si tratta ma di autolimitazione, ricerca dell’essenza.

 «oÙd m£kar oÙdeˆj pšletai brotÒj, ¢ll¦ pÒnhroi

p£ntej, Ósouj qnhtoÝj ºšlioj kaqor©i»

                        (Solone, fr. 15D).

 21.12.1998. La guerra nell'antichità era prima di tutto conoscenza del territorio, sassi e pendenze, alberi e idrografia.

 23.12.1998. Incipit della Metafisica: Aristotele in realtà non afferma qui una caratteristica antropologicamente condivisa, ma al contrario fissa uno standard minimo definitorio dell'umanità. Tutti quelli, e solo quelli, che tendono al sapere possono definirsi uomini.

 Il punto è: in quale senso il giorno di ieri è più vicino di dieci anni fa, o dell'era terziaria? Voglio dire, in quale senso fisico?

 Non più una purificazione dell'io come nella filosofia morale di migliore tradizione, ma piuttosto una depurazione dell'io dalla realtà presentata come riflessa senza scorie da un io-specchio, la cui unica virtù sarebbe di non causare distorsion ottiche. Si distilla il reale annullando l'io.

 24.12.1998. La pluralità delle opere kafkiane non ha niente a che vedere con la necessità di esprimere una pluralità di concetti (come è invece la norma). Ha invece qualcosa in comune con l'associazione germinativa dell'inconscio, che pone in collegamento attraverso la pluralità delle immagini aree diverse e coestese dell'apparato psichico. Diverse e coestese: tanto per dare l'idea della difficoltà di esprimere in un linguaggio formalizzato questa coincidenza di attributi alternativi (niente coincidentia oppositorum). Uguale/diverso è, nella logica kafkiana, un sinolo con funzione di tertium inesprimibile in una logica indoeuropea. E' un nesso che riguarda la delicata e intima articolazione fra simbolo e referente nel processo onirico (non nel simbolo letterario!) e comporta uno stravolgimento non solo della logica aristotelica (della quale poco ci importerebbe) ma persino della logica dell'inconscio come è descritta da Matte Blanco. In questa direzione l'intensità di senso della singola proposizione («Egli guardava dalla finestra») partecipa della sacralità della scrittura senza tuttavia essere ingannevole, perché si costituisce come funzione pulsionale che si fa strada nel varco di una logica emergente, quella che solo adesso - a fine secolo - cominciamo a possedere.

 25.12.1998. Il sorriso «unvergleichlich» di Kafka è agli antipodi di quello di Monna Lisa: nessun mistero, e nessun elemento decorativo di sfondo. E' invece lo sforzo discreto e rispettoso di rappresentare la realtà nel modo più preciso e perspicuo possibile, senza il rumore aggiunto di ogni anche piccolo artificio retorico. L'onestà di questo sforzo maniacale di precisione implica in lui, quasi involontariamente, la dolcezza e la leggerezza del gesto.

 La non falsificabilità è ciò che caratterizza le dottrine umanistiche: questo è il senso di oÙk œstin ¢ntilšgein.

 Il linguaggio scientifico dovrebbe essere solo una fase nel progresso individuale: transitoria nello studioso vero, definitiva nei mediocri.

 26.12.1998. L'odore di legna bruciata scendendo le scale. Nella storia nascosta di un ricordo - quella di cui non ci rendiamo conto, il lungo tempo in cui non viene rievocato - c'è un momento in cui esso passa, per così dire, allo statuto di aggregato simbolico, connotativo dell'Unwiederbringlich.

 31.12.1998. L'opposizione racconto/romanzo non è in Kafka qualitativa (nel senso di una differenza nel piano iniziale di scrittura), ma quantitativa (c'è differenza cioè nella intensità di irradiazione dell'idea base, cioè di S°). Ciò è particolarmente vero nel caso del Processo, dove la forza dell'idea di arresto giudiziario induce una loquela verbale che ha bisogno di spazi estesi e di scene multiple per occupare tutto lo spazio di cui ha bisogno.

The Kafka Project 2.2 - Copyright Mauro Nervi © 1999, 2000 - Last updated 23rd December 2000