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 1999

(1996 - 1997 -1998 - 1999 - 2000)

 

1.1.1999. Due diverse categorie di vicoli ciechi: il passo cassato e lo sviluppo interrotto. Nel primo caso la testa finisce in fondo al cunicolo, ritornano le stesse parole come in una coazione a ripetere, oppure si è commesso un «errore» e si fa ancora in tempo a ritrovare la strada principale. Nel secondo caso, è un gesto quasi fortuito che accenna alle infinite possibilità extratestuali, imprimendo alla narrazione un carattere intimamente essenziale di non-finitezza e al contempo amplificando l’impressione di disorientamento (per il fatto che implicitamente si allude a punti di riferimento che sono ignoti alla narrazione di superficie).

 

La cosa che deve essere più chiara, a scanso di equivoci: l’onirismo (come la struttura) è un mezzo e non un fine. C’è un secondo livello di logica simbolica cui si vuole arrivare.

 

Connessione inestricabile di ogni personaggio (tranne K.) con lo spazio letterario in cui è collocato: l’ispettore nella stanza di Fr. B., l’avvocato Huld nel suo letto, la stessa Fr. B. nella sua stanza, il prete nel duomo. E per converso, grande peso simbolico quando tale connessione si rompe: i guardiani nello stanzino, Fr. B. nell’ultimo capitolo.

 

Necessità di definire gli strumenti ermeneutici. Lo spazio narrativo, la falsa partenza, l’atto mancato, lo sviluppo interrotto, il passo cassato (questi ultimi quattro in ordine decrescente di chiarezza e intensità icastica, la quale è a sua volta un criterio trasversale di analisi), il monologo emotivo e quello decisionale (importanza della domanda interiore).

 

Importanza dello spazio narrativo negli interni: la disposizione degli oggetti come S1 (cfr. le osservazioni dei familiari di Kafka dopo la lettura pubblica della Condanna).

 

11.1.1999. Il «kleines Gelächter» nella stanza attigua appartiene a un numero indefinito di persone perché, in questo momento della scrittura, il salotto della signora Grubach non esiste ancora, né è sicuro il numero esatto di estranei. Lo spazio narrativo, i personaggi e gli eventi si originano contemporaneamente, con il progredire della scrittura.

 

K. è «unnachgiebig» (p. 23) nello scambio verbale, ha chiara coscienza della propria superiorità retorica, risponde sprezzante e «a tono», nessuno fra i personaggi dotati di autorità è in grado di contraddirlo, ciononostante ha la peggio, ed è chiaro che la sua forza retorica è un compenso onirico alla sua debolezza «posizionale». Il linguaggio gira a vuoto, perché il piano delle parole e il piano delle condizioni posizionali non si ingranano.

 

Atto mancato e falsa partenza sono naturalmente movimenti affini, ma la falsa partenza ha maggiore evidenza narrativa, perché spinge con più forza K. in condizioni di inferiorità (cfr. la riflessione di K. sulla possibilità di forzare gli eventi con la fuga). 

 

«Es ist nicht üblich» (p. 19). La risposta dell’ispettore è obliqua, non solo non è un diniego, ma sembra appartenere a un ordine di linguaggio del tutto estraneo a quello pertinente a un interrogatorio. E’ una scheggia di conversazione appartenente a un altro contesto, che riemerge qui per essere rifunzionalizzata a scopo repressivo. K. la ignora per non essere ulteriormente umiliato, mentre non avrebbe potuto ignorare una proibizione esplicita. D’altra parte la proibizione sta già nei fatti: non ci sono sedie nella stanza. Questa proibizione «nei fatti» è quella più usuale nella narrazione kafkiana; la proibizione esplicita è eccezionale. Nel Processo solo all’inizio, quando K. tenta di uscire dalla stanza: la proibizione è rinforzata dal gesto (il libro sul tavolino, l’atto di alzarsi). Ma qui il procedere del tribunale non è ancora definito; e d’altronde lo stesso K. si chiede se veramente gli sarebbe impedito con la forza di uscire, qualora lo decidesse a dispetto della proibizione. Per il resto del romanzo è vero ciò che dice il cappellano: «Il tribunale non vuole niente da te. Ti prende quando vieni e ti lascia andare quando te ne vai».

 

Anche i due esecutori dell’ultimo capitolo non parlano, non pronunciano la parola repressiva, ma si limitano a immobilizzare K. fino a formare con lui un solo blocco come inanimato.

 

La logica del guardiano Franz: non è possibile dichiararsi innocente se si ammette di non conoscere la legge. Numerose conseguenze di questo postulato: a) non esiste un’etica naturale di riferimento che consenta di avere la coscienza a posto; b) sostenere la propria innocenza significa riconoscere l’autorità della legge che si ignora, ponendosi sul suo stesso piano logico; c) l’inconoscibilità della legge non esclude la colpa (e questo è ovvio, e viene ribadito nella parabola) ma soprattutto non esclude l’esecutività della legge stessa. Questo è il punto più equivocato. Nell’equilibrio interno del testo, non ha importanza accertare il carattere di simbolo della legge, o della colpa: quello che dirige il testo è invece la correlazione logica fra azione e reazione, fra il piano della quotidianità e quello dell’eccezione. Quest’ultima altro non è che la quotidianità riempita di un senso diverso; ciò che si narra (e che vale la pena narrare, perché si discosta dal banale) è un’aggressione simbolica che sfrutta la polisemia del quotidiano per disorientare il punto di vista della narrazione. Qualcosa è successo che il protagonista, secondo l’opinione di tutti, dovrebbe conoscere; invece ne è ignaro, ma un chiarimento univoco gli è inaccessibile, perché tenta in ogni momento di imporre la propria razionalità a una logica incongrua. E questo tentativo viene sempre punito, come dimostra il caso esemplare della Condanna.

 

Il linguaggio di K. è, con una certa frequenza, metaforico, e specialmente sotto l’urgenza dell’emotività: «Ist es nicht zum Steinerwachen? […] die hohe Schule reiten». Ma sono metafore di comprensione non immediata, non sono usuali nel contesto, hanno parentela con il Witz aggressivo, come se in esse trovassero sfogo l’aggressività e la gratificante illusione di superiorità di chi le pronuncia. Ma è proprio per la loro ricercatezza che cadono nel vuoto.

 

Nel passo cassato «sembra che l’interrogatorio si limiti allo scambio di sguardi» c’è un riferimento esplicito al precedente sguardo di Franz, di cui prova quindi l’importanza. In realtà è un passo falso, perché questa prima opinione di K. verrebbe smentita in modo troppo stridente da quanto segue. D’altro canto, un interrogatorio  «di soli sguardi» dal quale fosse bandita la parola sarebbe, in assoluto, la condizione peggiore per K.

 

«Zerstreuen Sie sich nicht durch nutzlose Gedanken» (p. 15). Passo parallelo nella Metamorfosi. La necessità di concentrarsi sull’essenziale è continuamente frustrata dalla impossibilità di sfuggire al quotidiano, che è molteplice; la ricerca di unità nel linguaggio, nel gesto, nell'azione (che sarebbe la vera difesa di K.) è sempre rimandata per la necessità di compiere, prima, gli infiniti doveri imposti dalle convenzioni, dal puro e semplice movimento nello spazio domestico di tutti i giorni. Il protagonista kafkiano è sempre in ritardo, perché esige («unnachgiebig») di attraversare in un tempo finito ogni singolo punto del segmento che lo separa dalla meta. Quest’ultima sarebbe la concentrazione interiore, la quale coincide con la vera autodifesa (e che è, appena travestita, la letteratura).

 

Struttura dei piani simbolici. S° è il simbolo base: l’arresto nel Processo. S1 i simboli che costituiscono la trama del testo, e di cui si deve costruire la semantica: l’oggetto, il gesto, la disposizione spaziale dell’ambiente (in stretta connessione con l’oggetto), l’atto mancato e la falsa partenza (nei loro rapporti reciproci), il rimando interno (che ha valore quasi solo unidirezionalmente, dal presente al passato), la riflessione verbale (nelle sue varianti: la domanda retorica, il monologo decisionale e l’esegesi, ognuna con la sua specifica coloritura pulsionale). Falsi simboli: la mela, l’orologio. S2 è il conguaglio dei diversi S1 in due categorie logiche opposte e non comunicanti; l’assenza di parametri comuni a queste due logiche costituisce la forma specifica kafkiana del dissidio tragico, nascosta nello strato più profondo del testo.

 

La totale assenza di conguaglio fra le due logiche non esclude la coincidenza del livello di realtà, che è naturalmente unico per tutti (così come due piani non paralleli nello spazio hanno in comune una retta, la quale tuttavia non è una realtà bidimensionale per nessuno dei due piani). Come qualcuno che, giovane e inconsapevole, danza rispettando rigorosamente i quattro quarti, ma al quale sarebbe inutile spiegare i principi del solfeggio. Il senso del suo rigore musicale è del tutto non comunicante rispetto a quello di un professore d’orchestra.

 

Il personaggio kafkiano, che è collocato in un ordine alieno, i cui principi gli sfuggono perché collocati anteriormente all’inizio della narrazione, è partecipe di una tragicità che solo di poco si discosta da quella kleistiana, dove il protagonista è tragico perché non sa quello che gli sta succedendo (le scene di trance del principe di Homburg; Pentesilea come erede dell’Agave euripidea). Ma il tragico kafkiano è più profondo, perché non si limita a opacizzare il rapporto conoscitivo fra il protagonista e il suo destino, ma tematizza questa opacità come confronto logico in cui la razionalità corrente è smascherata come semplice componente pulsionale, sopraffatta da una pulsione ben più potente, che è quella legata alla logica non indoeuropea dell’ebraismo. Non quindi una semplice assenza di comunicazione, ma la rappresentazione di una antinomia logica; e anzi – più che di una antinomia – di una incommensurabilità, uno sfasamento tra ritmi incompatibili (come se si tentasse di seguire contemporaneamente un ritmo ternario e uno quaternario a pari valore dell’unità di battuta, dove gli eventuali tempi forti coincidenti assumono un valore forte che è in realtà casuale, e contemporaneamente non lo è, perché pur non essendo intenzionale in nessuno dei due ritmi esprime proprio e solo questo: esistono due ritmi con tempi forti coincidenti di diverso significato nelle due linee ritmiche; una specie di polisemia del tempo forte. L’errore consisterebbe nell’attribuire alla coincidenza un significato simbolico particolare che non sia per l’appunto il casuale incrocio di linguaggi non comunicanti).

 

Questa specie di «coincidenza casuale dei tempi forti» è realizzata, nel concreto della narrazione, con un procedimento di condensazione onirica. Nel sogno, come è noto, l’intensità icastica del ricordo è proporzionale all’intensità e al numero delle pulsioni condensate: così anche nel testo kafkiano, dove il referente simbolico si oblitera sempre più con il crescere della sua intensità.

 

12.1.1999. Le difficoltà nella trasposizione filmica dei testi kafkiani sono istruttive sulla natura della icasticità di quei testi. Sullo schermo il carattere onirico si annulla per principio: lo scorrere delle immagini in un sogno non ha niente a che vedere, in realtà, con lo scorrere di una pellicola, e la luce particolare che illumina l’oggetto onirico è costituita da un brusio verbale, non visivo, che vibra dietro quella luce e anzi ne è l’essenza. L’immagine kafkiana mantiene vivo un flusso implicito di parole con l’inconscio, che l’immagine cinematografica per sua natura non può riprodurre. E questo flusso linguistico è costituito dai frammenti del discorso quotidiano, anzi dai brevi elementi linguistici di passaggio (che sono così importanti nel linguaggio onirico: vedi nota 8.1.1997). Di questi singoli frammenti, di per sé insignificanti se non in un contesto di uso quotidiano, viene utilizzata la polisemia: proprio perché legati all’uso pragmatico, sono gli elementi più suscettibili di utilizzo ambiguo quando vengano loro sottratte le condizioni di contesto. E allora sul filo di questa ambiguità scorre la comunicazione fra la scena di superficie e l’inconscio: da qui la luce obliqua, non riproducibile della scena kafkiana. Quest’ultima per sua intima natura si può immaginare, non vedere: vederla significa amputare d’un colpo tutti i legami con l’inconscio del singolo, imporre una univocità impossibile nel testo (questo il senso anche della frase riportata da Janouch, se vera: «si fotografano le cose per scacciarle dalla mente. I miei racconti […] sono un modo di chiudere gli occhi», in Confessioni e diari, p. 1073. Vedi anche R. BARTHES, La camera chiara, Torino 1980, cit. da S. Ferrari a p. 29 di Sogno e scrittura in Franz Kafka, Modena 1988).

 

In questa differenza tra vedere e immaginare si chiariscono (per così dire) alcune fra le caratteristiche più importanti del testo kafkiano. Prima di tutto la condensazione: la quale altro non è che un utilizzo speciale della polisemia, che però in questo caso è coincidente (e non successiva) all’atto dell’immaginare: nell’atto stesso di evocare la scena, sotto la guida delle parole, risuonano gli armonici associativi che stabiliscono il contatto con l’inconscio. Invece, nella visione, la polisemia è successiva alla componente visiva, non è consustanziale ma si pone su un piano separato, come se all’atto del vedere dovesse, ancora una volta, seguire quello dell’immaginare (immaginare cioè una scena diversa legata alla prima dai criteri associativi, ma non coincidente).

 

13.1.1999. Torturare ed essere torturato (M 304).

 

La logica «altra» che emerge grazie al lavoro onirico nella sua trasposizione testuale non ha tuttavia niente a che vedere con la logica del sogno (che poi è ben descritta dalla bilogica di Matte Blanco). Quest’ultima è per così dire una logica terza fra i due contendenti, e per qualche motivo è l’unica che permette il loro scontro. (D’altra parte nemmeno la logica razionale è pura: se lo fosse, semplicemente non si occuperebbe di ciò che non le appartiene, sarebbe inaccessibile a ogni tribunale).

 

«Zu unnachgiebig» è l’errore di K. anche secondo Leni (p. 113).

 

14.1.1999. La logica antagonista a K. gli appare sempre come socialmente inferiore, contraria allo stato di diritto oltre che alla morale. E’ contraria alle leggi, al diritto borghese, alla sicurezza del cittadino; lo sforzo di K. di trovare i «giudici superiori» (gli unici dei quali si sentirebbe pari nel grado) si scontra con il fatto che il tribunale stesso è rappresentativo di un ceto sociale a lui inferiore (le soffitte, il quartiere in cui il tribunale è situato, il giudice che siede su una sedia da cucina, l’avvocato Huld che è un «Armenadvokat», Titorelli, eccetera. Tutto è orlandianamente desueto).

 

La logica di K. conosce il sarcasmo, ma questo è sempre fuori luogo; conosce il Witz, ma questo gli si ritorce contro. La logica del tribunale invece conosce una specie di ironia bonaria che traluce dall’atteggiamento autoriale (che qui si distingue perciò implicitamente dal punto di vista di Josef K.): ed è un’ironia non verbale, sta nei fatti, nella scena stessa che viene presentata (non per come viene presentata, ma per il suo contenuto stesso). E’ un’ironia complessa, perché il lettore condividendo il punto di vista del protagonista prova – con Kafka – simpatia per lo sconfitto; d’altra parte non può condividere l’ostinazione e la superbia di K. e prova una specie di simpatetica ma maligna soddisfazione nel vederlo umiliato (esemplare il caso di K. al primo interrogatorio, quando dichiara la propria professione e viene coinvolto nella risata degli astanti).

 

15.1.1999. Cedevolezza della legge. Il sorvegliante «apre spontaneamente la porta». La risposta di K. a «non preferisce…» è il suo primo equivoco: il sorvegliante era semplicemente stupito che K. volesse realmente uscire dalla stanza, perché sono le iniziative di K. ad accelerare il processo. Per questo il tentativo di trattenerlo era realmente «gut gemeint».

 

Buttare il libro – buttare la scatola di fiammiferi. Gesto che scandisce le fasi narrative (importanza strutturale).

 

A proposito dei rapporti fra tribunale e giustizia ordinaria: cfr. nel dialogo con il commerciante Block il ruolo tranquillizzante della commistione nella persona dell’avvocato Huld.

 

K. «vuole insinuarsi nel pensiero dei custodi […]». Ma il tentativo di confronto fra due logiche si interrompe bruscamente: «se ne accorgerà».

 

Sempre sulla cedevolezza: i sorveglianti diventano tranquilli e tristi quando K. alza la voce. Dicono però: «Tutto inutile».

 

Struttura della difesa «sorpreso – ma non molto»: presuppone il pensiero precedente per negarlo subito, e nel negarlo è la sorpresa (consenso dell’ispettore); poi, inversione del movimento sulla base di due obiezioni in ordine crescente di importanza: 1. Percezione della propria innocenza; 2. Indeterminatezza dell’istanza accusatoria che si manifesta nella irregolarità delle divise. E qui il ragionamento si chiude con un secondo riferimento a una precedente supposizione di K. (che era stata formulata attraverso la voce autoriale) riguardo all’abito «da viaggio» del sorvegliante Franz. Struttura della risposta dell’ispettore.

 

23.1.1999. Importanza, nei titoli kafkiani, dell’articolo indeterminato. Accentua il carattere di «exemplum»: uno fra i tanti, una storia che si è persa fra mille simili e che viene recuperata dalla scrittura (Un digiunatore e non il, grave errore a p. 50 di S. FERRARI, cit.).

 

S. Motivo ricorrente: tuffarsi «prima che il sole scenda troppo». Acqua trasparente e luminosa, come è spesso il mare nelle giornate di sole in pieno inverno.

 

29.1.1999. Ieri l’altro, a Firenze: «Offerta SS. Messe per le anime più abbandonate». E, su una colonna del ponte: «Mit wem rede ich eigentlich?».

 

31.1.1999. S° nasce in corso di correzione (gefangen>verhaftet).

 

2.2.1999. A proposito di icasticità del sogno: ricordare il sogno raccontato e disegnato a Felice (la mano nella mano), e in parallelo il finale del Processo.

 

4.2.1999. Vantaggi della metafisica sulla sociologia e il giornalismo: il pensiero è solo con se stesso, nessuna contaminazione borghese, l’attrattiva ascetica della verità fine a se stessa.

 

7.2.1999. Ha poco senso distinguere fra le sequenze di un sogno e la sequenza di sogni (concetti ben riassunti dall’identica parola «Traumsequenz»).

 

12.2.1999. Conoscenza come riduzione all’inorganico. Definiamo «vivo» ciò che non conosciamo a fondo per la sua complessità: quando ogni causalità sia illuminata, la struttura non rientra più nella categoria del vivo (così per la biologia, per l’emozione estetica, per musica e letteratura).

 

18.2.1999. «Domandati se il simbolo che hai scoperto non sia l’impronta del tuo piede» (V. Nabokov in Strong opinions, trad. it. Intransigenze, Milano 1994, p. 90).

 

28.2.1999. Ammesso che anche la volontà di dire qualcosa di extrastorico sia di per sé storica, tuttavia essa ci apparirà tale solo all’ultimo momento, quando il linguaggio stesso non sarà più un valore. Fine del linguaggio, fine della storia, prevalenza dell’inorganico.

 

Camminando nella folla, la comprensione istantanea di come si possa puntare tutto sulla gioventù, sul sorriso, sulla fugacità.

 

Se la scrittura creativa può funzionalizzare ai suoi scopi la malattia (T. Mann) il commento ha invece bisogno del benessere, della salute reale e non solo immaginata, la lucidità critica – anche se non quella artistica – ha bisogno dell’equilibrio fisico (non foss’altro che per trovare ragioni accettabili alla propria esistenza).

 

5.3.1999. Argomentazione dell’ispettore: la razionalità è insensata, perché K. non è a contatto con un’autorità superiore, che potrebbe rispondere alle sue domande in forma esauriente. (Una tale autorità però dovrebbe avere in sé le ragioni di K. e contemporaneamente quelle dell’arresto: ma per unire questi due piani bisognerebbe essere talmente in alto da conoscere – nel senso di possedere – due logiche rigorosamente alternative. Se un’autorità così alta esiste nel mondo del Processo – che è, bisogna ricordarlo sempre, compiutamente umano – c’è comunque da dubitare che K. potrebbe ricavarne, incontrandola, una risposta realmente esauriente. La limitatezza degli orizzonti di K. escluderebbe comunque la comprensione, se non forse attraverso il cunicolo della metafora – certamente non con il linguaggio del logos). Come lui stesso afferma, l’ispettore quindi non risponde: tuttavia la sua attenzione alle sfumature (attenzione per la quale più sotto si presterà volentieri ad assecondare le sottigliezze di K.: «Siccome lei sta a pesare ogni parola…») lo spinge a precisare quello che sa (che K. è in arresto, ma questo lo sapevano anche K. e il lettore), e anche quello che non sa anche se, secondo logica, dovrebbe inferirsi come conseguenza inevitabile di ciò che sa (e cioè che K. è accusato: e con questa distinzione l’ispettore ipotizza per un attimo la possibilità di un arresto senza accusa, una fantastica sospensione del nesso di causalità). – Nella prima parte della sua replica dunque, che è quella dedicata all’argomentazione razionale di K., l’ispettore semplicemente espone la realtà dei rapporti di conoscenza, ciò che equivale a una non-risposta; e ottiene così anche il vantaggio di sottrarre a K. ogni possibilità di replica. La realtà dell’arresto sfugge alle domande sintetiche e alle deduzioni di K.; come un connettore inadatto al plug, le domande non combaciano con il sistema concettuale delle risposte. – In cambio di una risposta che non può dare, l’ispettore dà un consiglio: cambia cioè il genere retorico, che da argomentativo e logico diventa emotivo e suasorio. K. farebbe bene a tacere: il buono e il cattivo della sua posizione possono essere desunti dal suo «comportamento». La legge dunque esalta la comunicazione non verbale come la più efficace per spiegare le proprie ragioni.

 

14.3.1999. Uno dei pochi vantaggi della maturità (e dunque anche una delle poche mete da raggiungere): la coordinazione dei pensieri, la connessione fra calma ed esperienza per ottenere il massimo risultato possibile.

 

23.3.1999. «Dare una sedia all’imputato»: cfr. A. Heidsieck, The Intellectual Contexts of Kafka’s Fiction: Philosophy, Law, Religion, Columbia, Camden House, 1994, p. 126, n.9:  «The stool is an echo of the Austrian criminal procedure referred to earlier that requires the investigating judge to offer the defendant or witness a chair during the hearing».

 

3.4.1999. S. Venezia come la città complessa, piena di «angoli in cui nascondersi».

 

Ci sembrano più felici quelle epoche delle quali crediamo di conoscere meglio le regole linguistiche. Ma anche questo è, in realtà, linguaggio privato. Noi ricostruiamo le regole con gli elementi della nostra personale esperienza. (Ed è per questo che crediamo felici quelle epoche).

 

5.4.1999. Sul contare: «E proprio per questo impariamo a contare nel modo in cui impariamo: con esercizio infinito, con spietata esattezza; proprio per questo si insiste inesorabilmente sulla necessità che tutti diciamo “due” dopo “uno”, “tre” dopo “due”, e così via. – “Ma allora questo contare è solo un uso? A questa successione non corrisponde anche una verità?”. – La verità è che questo contare ha dato buoni risultati. – “Vuoi dunque dire che ‘essere vero’ significa essere utilizzabile (essere utile)?”. – No, voglio solo dire che della successione naturale dei numeri – così come del nostro linguaggio – non si può dire che è vera, ma soltanto che è utile, e, innanzi tutto, che viene impiegata». L. Wittgenstein, Bemerkungen über die Grundlagen der Mathematik, trad. it. di M. Trinchero, Torino 1971, I, § 4. Cfr. l’alternativa vero/necessario nel Processo.

 

Il testo ambiguo spesso deve il suo successo alla capacità di trasformarsi per il lettore in linguaggio privato: essendo valida ogni interpretazione, quella più vicina alla propria sfera biografica è considerata quella più efficace nel risvegliare l’emozione e quindi – ecco il salto – la più vera.

 

Del resto, spesso anche l’educazione musicale altro non è che lo sviluppo di un linguaggio privato, parassitario di un sistema simbolico ambiguo.

 

10.4.1999. «Davvero c’è Dio in questo luogo, e io non lo sapevo» (Gen. 28, 16).

 

11.4.1999. Cosa distingue la domanda filosofica (ad esempio «Che cosa è l’essere?») dalla domanda scientifica (ad esempio «qual è il peso specifico dell’idrogeno?»). Molte cose, fra cui, per la domanda scientifica: la possibilità di una risposta univoca (cioè accettata intersoggettivamente); la sensatezza; la quotidianità e apparentemente la minore rilevanza rispetto all’universale. In Kafka viene adottato, senza eccezioni, un linguaggio ordinario che utilizza solo proposizioni scientifiche. Tutto è quotidiano e accidentale; il linguaggio è rigorosamente referenziale e dotato quindi di senso; la tautologia, quando presente, è oggetto della narrazione ma non si insinua mai nello strumento della narrazione.

 

Il principio orlandiano: valida è quella critica che aumenta il piacere del testo. «Ho riletto il testo primario con maggior piacere, dunque, sperimentalmente per così dire, ho comprovato la validità del contributo critico». Questo significa prendere una scorciatoia e postulare, con l’ambigua allusione al metodo scientifico sperimentale, una generalità del giudizio che andrebbe invece delimitata e resa mobile dalle convenzioni del gioco. Vero è anche però che qui siamo davanti a un problema nuovo: a quale categoria appartiene il giudizio che esprimiamo su un testo critico? Non è un giudizio estetico, perché le qualità di una critica non risiedono in primo luogo nella forma di quella critica; ma non è neppure un giudizio di verità/falsità in senso scientifico, perché non esiste un criterio di ripetibilità sperimentale applicabile alla critica. Il terreno cedevole su cui si gioca ogni disputa critica è dovuto al fatto che essa partecipa della stessa insensatezza delle proposizioni metafisiche, non scientifiche. Il giudizio positivo che esprimiamo su una critica non ha dunque a che fare con nessuno di questi due versanti, ma riguarda piuttosto la consonanza di giochi linguistici fra chi legge e chi scrive; al centro dell’attenzione non è la scoperta, ma il riconoscimento di strutture cognitive comuni. E’ la sensazione di «essere finalmente a casa» che ci consente di apprezzare un testo critico, il riuscire a distinguere, sotto un qualunque travestimento, il nostro stesso gioco linguistico: un esercizio di narcisismo, insomma. Nel caso della critica kafkiana, le difficoltà diventano speciali proprio per il fatto che le proposizioni kafkiane sono sempre dotate di senso: e l’insensatezza si innesta sulla sensatezza con la massima facilità, grazie alla ruota di comunicazione costituita dalla lettura allegorica. In questo modo la critica diventa infinita e insignificante al tempo stesso, perché si sforza di ricavare proposizioni generalizzanti, logiche in senso aristotelico e dunque tautologiche, da un testo che è, invece, non-logico e referenziale, quindi dotato di senso. (Con due importanti e opposte eccezioni: sul lato del testo, i frammenti non narrativi e l’epistolario, dove però lo statuto del testo non autorizza considerazioni di logica narrativa; sul versante della critica, gli studi biografici e filologici, che si muovono su un piano di relativa falsificabilità.)

 

Per «Erste Untersuchung»: la funzione primaria della «risposta ben assestata» è naturalmente la consacrazione sociale di una superiorità linguistica che viene assimilata a una superiorità tout-court. E’ proprio questa assimilazione che viene però messa in crisi dal principio di realtà, il quale si insinua nella felicità onirica rovesciando il piacere in ansia; esperienza tipicamente infantile, o per dir meglio caratteristica della conclusione dell’infanzia, quando si consuma la cacciata dal paradiso del narcisismo. Nel sogno si ripete angosciosamente il fallimento di questa regressione all’infanzia, che era l’unico luogo in cui il successo retorico aveva sempre la meglio sulla violenza dei fatti.

 

I due elementi che rendono Wittgenstein differente da ogni altro filosofo di questo secolo sono la tensione etica e la maestria linguistico-metaforica. Tutto ciò ha un effetto moltiplicativo non solo sul piacere della lettura, ma proprio sulla portata della riflessione teoretica.

 

Se, in un segnale stradale, vedo una freccia rivolta a destra, ne deduco che dovrò svoltare a destra, non che qualcuno voglia attirare la mia attenzione sull’albero che, casualmente, si trova a destra del segnale. Eppure in un equivoco del tutto simile cade gran parte dell’esegesi kafkiana.

 

La direzione del testo è il significato del testo.

 

12.4.1999. L’erudizione può essere efficace nel suscitare l’ammirazione dei contemporanei; ma i posteri sono soliti giudicare la grandezza con criteri opposti (considerando maggiore il merito di un lungo salto, se eseguito senza trampoli).

 

15.4.1999. Il coleottero di Wittgenstein: in PU, §293.

 

16.4.1999. Importanza anche teoretica dell’autoinganno: tutto nell’etica può essere privato di fondamento, ma non l’onestà verso se stessi o per lo meno questa può essere demotivata ma solo per ultima; e ciò in modo simile all’altro valore estremo, quello che attribuiamo al linguaggio. E questo perché, in entrambi i casi, abbiamo a che fare con la ricorsività: lo strumento teoretico non può segare il ramo su cui è seduto senza cadere. (Da questi due valori però, come al solito, si potrebbe ricostruire un’intera etica; illusoria anch’essa, ma che importa, dato che porre fine a questa illusione significa semplicemente tacere di ogni illusione).

 

In entrambi i casi ci si condanna al silenzio: l’autoinganno è un silenzio ciarliero, un parlare d’altro per non dire; la svalutazione del linguaggio, in forma più radicale, è un tacere per stanchezza, è l’ultimo passo prima dell’inorganico.

 

16.4.1999. Wittgenstein e il dissolversi del linguaggio come segno. L’enfasi che viene posta sull’importanza, e anzi la centralità, del linguaggio nella riflessione filosofica è spia del fondato sospetto che si nutre circa la reale esistenza di qualcosa che possa essere definito segno in generale. E questa possibilità sfugge dalla penna improvvisamente (senza che ciò sia quasi notato) proprio nel celebre PU §293: «E potrebbe anche darsi che non ci sia nessun coleottero».

 

A pensarci bene, l’idea di resurrezione è sempre oggettiva, la si immagina sempre dal punto di chi assiste allo spettacolo piuttosto che da quello di chi lo sperimenta.

 

Camminare con calma nella pioggia, senza alcun riparo, senza fretta e senza ansia, con stanchezza.

 

17.4.1999. Sempre a proposito di Kafka, Rilke e della sobrietà di linguaggio: «Man irrt sich stets, wenn man große Worte in den Mund nimmt» (R. WALSER, Jakob von Gunten. Ein Tagebuch, Frankfurt a. M. 1980, p. 140).

 

18.4.1999. Citato in L. Wittgenstein, Diari segreti, Bari 1999, dall’introduzione di A. Gargani (1987), p. 27 n. 47: «Il pericolo comincia quando notiamo che il vecchio modello è inadeguato e allora, anziché modificarlo, per così dire lo sublimiamo. Tutto ciò che la filosofia può fare è distruggere idoli. E questo significa non costruirne dei nuovi – diciamo “dall’assenza di idoli”» MS 213, pp. 434-435. Applicato al linguaggio, questo significa: non voler fare retorica dalla impossibilità di una retorica tradizionale.

 

19.4.1999. Ciò che oggi priva di legittimità la produzione di sistemi filosofici è l’interiore percezione che essi riducano la «übersichtliche Darstellung», che siano espressioni del particolare, una delle tante possibilità, mentre noi abbiamo la presunzione di rappresentare l’universale senza la mediazione di nuo strumento teoretico legato al punto di vista. (L’onestà ci costringe cioè ad ascoltare l’obiezione di Epicuro: potrebbe essere come dici tu, ma potrebbe anche essere altrimenti).

 

22.4.1999. Coppia di tedeschi in albergo. Sentimento di estraneità nei confronti del tipico, dei gesti, delle parole, dei sorrisi da persone qualunque; in antitesi alla familiarità risvegliata da qualunque tipico testo della cultura tedesca classica. Effetti sorprendenti del distanziamento.

 

Non l’essere argentino (Borges) ma qualunque appartenenza culturale conduce all’idea di indefinibilità.

 

4.5.1999. Giustamente osserva Platone (Polit., 277a) che l’idea di «sapere tutto» è tipicamente onirica. Come nel caso della efficacia retorica, nel recinto del sogno niente si oppone all’espansione del narcisismo.

 

6.5.1999. Come affrontare l’inspiegabile mantenendo almeno un fondo di verità: ritornando all’inspiegabile (K., Prometheus). Ciò che è vero, è anche tautologico, come dimostrano le proposizioni della logica – il che può anche voler dire che lo stesso parlare di verità in una proposizione sfiora l’insensatezza; l’inattingibilità del reale (vecchia Stimmung scettica) è implicita nel linguaggio, nella sua fallita funzione di segno.

 

7.5.1999. Fonte dell’importante nota nel quaderno 4 (24.11.11: «Auch im Talmud heißt es: Ein Mann ohne Weib ist kein Mensch»): Hiyya ben Gamda nel trattato Ecclesiaste rabbah IX.8 dove si afferma che un uomo senza sposa «non è un uomo completo, poiché è detto: Li creò maschio e femmina, li benedisse e… diede loro il nome di uomo (Gen.5.2). Vale a dire che quando sono entrambi come uno solo possono dirsi uomo ma se non formano un’unità non si chiamano “uomo”. V’è chi aggiunge che colui che non si sposa sminuisce la somiglianza divina, poiché è detto Perché Dio ha fatto l’uomo a sua immagine (Gen. 9.6)» (cit. da G. BUSI, Simboli del pensiero ebraico, Torino 1999, p. 365-366).

 

8.5.1999. Per la parabola Vor dem Gesetz: «Se non puoi guardare lo sfolgorio del sole, che è uno dei servitori del Santo, sia Egli benedetto, tanto meno potrai fissare la divina Presenza» (bHullin 59b-60a, cit. da G. BUSI, cit., p. 373).

 

15.5.1999. Importanza del silenzio nella mistica ebraica, come sfondo essenziale nel quale risuona la teofania. Parodica ripresa nella scena della «Erste Versuchung», dove la voce di K. risuona nel silenzio attento della sala.

 

18.5.1999. Wittgenstein al fronte. Totale disinteresse verso gli aspetti ideologici del conflitto, e attenzione all’oggetto materiale (il faro) o al singolo individuo, o alla prova con se stesso. Tutto per sfuggire alla menzogna.

 

Vale per gli oggetti ciò che vale per le parole: il loro significato coincide con l’uso. E’ per questo che visitare una fortezza da turista dà solo un’illusione di comprensione (Alhambra).

 

21.5.1999. La biblioteca di Babele comprende un numero molto elevato di possibilità, ma non infinite possibilità; in particolare, essa è definita dal numero di pagine di ogni libro, dal numero di parole in ogni pagina, dal numero di lettere che compongono l’ipotetico alfabeto. L’impossibilità assunta dall’inizio (che non esistono cioè due volumi uguali) elimina la possibilità di significare attraverso la ripetizione di segmenti di testo coestesi all’ampiezza di un libro. – E’ anche vero però che le condizioni iniziali coprono comunque una gamma di significazioni più che sufficiente all’esperienza umana attuale e del futuro prevedibile, per cui la limitatezza teorica può apparire, almeno attualmente, poco importante. (Analogamente, la distruzione dei libri era giudicata ai fini pratici irrilevante per la presenza di moltissimi altri libri che differiscono per una lettera o una virgola. Ma anche qui, non è esclusa per il futuro la possibilità di distruzione di tutti i libri con una certa parola di peso decisivo, sebbene la probabilità statistica dell’evento sia per ora minimale).

 

Uno dei lati più innovativi e commoventi della prosa kafkiana è la meticolosa espunzione di ogni convenzione borghese dalla letteratura. La realtà è osservata con la lucidità insostenibile di chi vuol fare piazza pulita di ogni metafora per vedere le cose non come segni, ma come oggetti. Ciò che viene sconfitto è sempre il tentativo di venire a patti con la realtà illudendosi di dominarla con strumenti solo linguistici (frequenza della metafora, ad esempio, nel linguaggio di Josef K.). E il tentativo operato dalla forma mentis borghese di annullare con una serie di mediazioni il contatto con le pulsioni creaturali viene rigorosamente e silenziosamente confutato. In questo non c’è angoscia, o se c’è è l’angoscia della residua parte di borghesia dei nostri pensieri.

 

Certamente desideri il riconoscimento; ma questo ti cambierebbe in una direzione a te ignota, che lo renderebbe immeritato. E’ vero però che in nessun caso sai dove ti porta la strada.

 

22.5.1999. Il tentativo di venire a capo della ricorsività deve comunque appoggiarsi sulla fede nell’esistenza del segno; quando questa fede viene meno, viene meno naturalmente anche la possibilità di fare domande. E’ qualcosa di più radicale del «Mystische» di Wittgenstein, che poteva se non altro essere additato; qui l’attenzione cadrebbe realmente sul dito e non sulla luna, senza tuttavia che questo sia un comportamento sciocco. Ma l’io stesso qui comincia a svanire.

 

«Zwar sinnlos, aber in seiner Art abgeschlossen».

 

I «pochi amici» del giardino epicureo sono garanzia di veridicità della discussione filosofica. La coscienza di una platea ampia altera inevitabilmente il discorso, e anche se non lo alterasse nella lettera, ne modificherebbe il contesto e dunque il senso.

 

24.5.1999. La sottile attrazione masochistica verso lo «sporco» (a Milena, 211f) è uno dei motori più potenti dell’immaginazione kafkiana, salva il testo dalla banalità degli automatismi e lo dirige verso uno sviluppo narrativo imprevisto, là dove per la condensazione dei simboli è più forte il desiderio; ed è tanto forte da comportare il travalicamento di ogni convenzione letteraria ereditata pur di raggiungere quel «piccolo cattivo odore» che si nasconde in una svolta narrativa illogica (illogica per il buon senso dell’io sveglio, naturalmente, non per l’inconscio). Così, ad esempio, l’emersione dei tre assistenti durante il colloquio con l’ispettore. Ciò che ha improvvisamente piegato l’immaginazione kafkiana in questa direzione è stata proprio la sua sgradevolezza in termini di narratologia tradizionale, l’ombra del desueto che riempie di tensione oggetti e personaggi che non sono neppure simboli nel senso narrativo usuale, che non possono essere salvati includendoli in una metafora che alluda a un significato nobile esterno. Pur senza essere «sporchi» nella descrizione esplicita, i tre assistenti – che appartengono naturalmente a una grande famiglia dell’immaginario kafkiano, quella degli oggetti ignobili e in eterno movimento che intralciano ogni passo del protagonista – devono la loro emersione nel testo proprio a questa inclinazione kafkiana verso il «peinlich», verso il grumo di pulsioni che contraddice nella forma più radicale la convenzione borghese e idealista.

 

Gli assistenti, come le bocce disposte a triangolo su un biliardo al primo colpo di stecca, dopo una lunga immobilità iniziano a muoversi improvvisamente in tutte le direzioni appena emergono alla coscienza di K. Ma più tardi, quando la signorina Bürstner lamenterà lo spostamento delle sue fotografie, si scoprirà che anche l’immobilità era apparente.

 

Il pensiero isolato naturalmente perde energia quando viene incastonato in un testo più lungo. E però c’è sempre il sospetto che l’energia, così evidente nella forma aforismatica, sia tale solo nella mente di chi ha scritto, perché in ogni parola c’è una segreta allusione al non scritto, che andrebbe esplicitato se si vuole ottenere l’efficacia sperata. Da questa contraddizione è difficile uscire.

 

27.5.1999.        La grande filosofia non è nelle formule dei trattati di logica, né si rappresenta con il fumo delle asserzioni morali, ma si mantiene costantemente nella zona grigia in cui il pathos della verità è funzionale a moltiplicare l’efficacia degli strumenti dell’indagine teoretica.

 

29.5.1999. D. KREMER, Kafka. Die Erotik des Schreibens, Bodenheim b. Mainz 1998. Da ricordare: sporcizia in Kafka (pp. 114 e ss.: saggio di Chr. Enzensberger, «wir sinken ja im Schmutz!» ecc.), il letto nel Proceß (p. 163), «nessun messaggio» in T 734 (p. 139), logica della qabbalah (pp. 154 e ss.), illustrare Kafka e In der Strafkolonie (pp. 147 e ss.). Su quest’ultimo punto anche il saggio di Adorno e la lettera di Flaubert (da confrontare con quella di Kafka al suo editore).

 

Adorno e la monotonia di Kafka.

 

31.5.1999. «Qual è la tua posizione su questo problema?». Non sempre il filosofo può dare una risposta soddisfacente, perché non ha materialmente il tempo per dare risposte esaurienti a tutto. Così la risposta sembrerà a lui stesso fin troppo semplice a ricavarsi a partire dai principi generali della sua filosofia: «Ma non vedi come è evidente?». E nulla più.

 

2.6.1999. Forme pervasive della pubblicità quando si pone come retorica dell’antiretorica, accentuando i valori genericamente umanistici e individualistici e denigrando l’intento commerciale dell’omologazione culturale. E’ l’odioso ammiccamento della pubblicità quando finge di uscire dai suoi vestiti («E, a parte la pubblicità: lo bevo davvero!». Improvviso straniamento di chi guarda, come quando un attore interrompe la finzione scenica per apostrofare il pubblico in un registro completamente diverso).

 

3.6.1999. La ricerca ossessiva di una forma comunicativa perspicua è di per sé innovativa. Trovare la parola giusta è molto più che abilità retorica.

 

Sonata a Kreuzer. L’impossibilità di «toccare la vita» senza qualche mediazione, che a noi sembra caratteristica del vivere borghese, è in realtà tipica di ogni cultura regressiva. Tale doveva apparire la cultura ancien régime alla borghesia quando questa era culturalmente alle origini. Tutto ciò che nasce ha l’innocenza dalla sua parte.

 

6.6.1999. Wittgenstein: parte importante del lavoro filosofico è la ricerca di buone similitudini (in Pensieri diversi, trad. di M. Ranchetti, Milano 1980, p. 16).

 

9.7.1999. Il senso dei sogni dimenticati. Da un lato, sono collocati all’interno del loro spazio temporale; ma il lavoro onirico ad essi connesso prosegue nella veglia.

 

Ciò che in futuro sarà originalità può essere, all’inizio, incapacità di adeguarsi al livello professionale comune.

 

Nell’idea di «gioco linguistico» si pone sempre troppo poco l’accento sul «gioco». Il programma dovrebbe essere invece quello di stabilire le differenze fra il gioco infantile e quello adulto. Un ragazzo che suona l’armonica, seduto su un gradino.

 

11.7.1999. «Verweile nicht und sei dir selbst ein Traum» (Goethe, Gedichte, Sprichwörtlich).

 

17.7.1999. Sulla polimatia cfr. Diogene Laerzio II 71 e 79 (secondo il quale coloro che si dedicano allo studio delle discipline scientifiche sono come i Proci che, non potendo conquistare Penelope, si accontentano delle sue ancelle). Ma per conquistare Penelope bisogna essere Ulisse.

 

Il problema con il tempo è definitorio. L’orologio, che lo definisce con lo spazio, è solo una tautologia. Alla parola «tempo» non corrisponde alcuna definizione logicamente valida.

 

18.7.1999. «Non si è mai abbastanza diversi» (Francesco Dellamorte).

 

9.8.1999. «come scorrea la calda sabbia lieve / per entro il cavo della mano in ozio».

 

Nell’eros non ci sono alleati, ma solo avversari. Questa ovvia osservazione spiega la solitudine del discorso amoroso.

 

13.8.1999. La radicale e non perseguita novità, così come la sua unicità, sono le caratteristiche sorprendenti della bellezza.

 

Dire che «la vita tende a coagularsi in moduli narrativi» (G. P.) è un singolare hysteron proteron. In realtà lo sforzo continuo dovrebbe essere diretto a sottolineare le differenze fra il sistema aperto della vita reale e quello chiuso e preordinato del meccanismo letterario.

 

17.8.1999. Ancora a questo proposito: la sensazione di immoralità che viene suscitata dal genere larmoyant ha a che fare proprio con questo disonesto tentativo di confondere le acque al confine tra finzione e realtà, applicando a una problematica sociale concreta le regole dell’intrattenimento narrativo. E’ dunque sulla pratica della distinzione che si puo’ fondare forse una nuova etica della letteratura.

 

Miserabili. La paranoia per le regole ha successo in letteratura perché fa parte delle figure ambigue, nelle quali l’adesione alla filosofia del personaggio si scontra con il buonsenso.

 

20.8.1999. L’illusione dell’io e l’illusione del tempo sono esattamente la stessa cosa.

 

Il casuale e molteplice incrociarsi degli sguardi camminando nella folla.

 

L’ironia di Kafka non è mai dotata di ésprit. La sua ambiguità fra serio e scherzoso (v. la testimonianza di Brod a proposito del testamento) è sempre del tutto esente dall’intenzione di divertire o peggio di ingannare il lettore; nessuna ricerca di sorpresa. Ciò ha a che fare con l’innocenza inevitabile del suo atteggiamento nei confronti della letteratura. (Qualcosa di simile in Wittgenstein, quando dichiara nei diari: «Non ho mai fatto uno scherzo»).

 

22.8.1999. La realtà crea spesso l’impressione di uno script scadente, in cui vi siano errori inammissibili; ad esempio la morte del protagonista senza una adeguata climax, o un’eccessiva banalità della dispositio. Forse però non era così, o non lo era in modo così intenso, prima dell’avvento del cinema, dei massmedia e della letteratura di massa.

 

23.8.1999. Centralità dell’affermazione del prete: «non bisogna considerare vero tutto, bisogna considerarlo solo necessario». Nella distinzione fra verità e necessità si rileva una importante differenza teoretica fra le due logiche. Nella logica del tribunale non ci si chiede mai «come stanno le cose» (cioè che cosa sia la verità – questa è la domanda di Ponzio Pilato, cioè del latino in mezzo agli ebrei); ma ci si immerge, per dir così, nell’idea che un fatto necessariamente consegua a un altro.

 

La pura e semplice contestazione della razionalità non porta a nulla: è un pericolo che va evitato. L’aggressività è tutta dalla parte di Josef K.; la legge invece è cedevole, non contraddice mai sul piano propriamente logico, la contraddizione sta semplicemente nei fatti.

 

24.8.1999. Coincidenza etica di Kafka e Wittgenstein. Qui, complessità inestricabile di una frase semplice: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio».

 

25.8.1999. Ma non sarà tutto questo lavoro nient’altro che uno sforzo di acquisizione di una logica all’altra? E se la risposta è sì: non viene in questo modo tutto a essere svuotato di senso?

 

Diari di Wittgenstein; molte cose da ricordare. Equivalenza fra veglia e talento (p. 27, ma anche p. 102); la definizione dello stile come «una specie di maschera dietro cui il cuore fa le sue smorfie come gli pare» (p. 34); W. come terminus ad quem della filosofia occidentale, e il vero compito della filosofia (pp. 38-39); il miracolo come qualcosa di più di un semplice fatto inaudito (pp. 45-46); le «voci sommesse» dentro di sé che segnalano le differenze (p. 47); l’orrore per l’insudiciamento borghese (p. 60); la dipendenza della nostra concezione normale del mondo dallo stato normale del corpo, in un passo ammirevole (p. 67); la serietà della vita (p. 78, ma anche passim); la durezza insopportabile di chi è puro (p. 91); e un paio di altre cose mirabili.

 

Ad esempio, a p. 41: solo il realismo è realmente consolatorio (applicato a Beethoven: ma il discorso è perfettamente calzante per Kafka, e, come ha osservato Nietzsche, per Schopenhauer): «egli non ci culla in nessun bel sogno ma redime il mondo in quanto lo vede, da eroe, così come esso è». Analogamente Nietzsche nella seconda Inattuale (l’eroe accanto ai cadaveri dei mostri che ha sconfitto).

 

Un Lied di Schubert sognato da Wittgenstein: «Betrittst du wissend meine Vorgebirge / ward dirs in einem Augenblicke klar» (p. 88).

 

3.9.1999. Finalmente un punto importante: natura profondamente non-dichiarativa della logica ebraica. «Perché due calloth?» e l’unica risposta giusta: «E quante se no?».  Non dev’essere un caso poi se la logica aristotelica si fonda prima di tutto sulla proposizione dichiarativa.

 

N. Malcolm, Ludwig Wittgenstein, Milano 1997, p.113: «Ho avuto una vita meravigliosa». Ciò è in rapporto con l’abitudine all’inflessibilità e all’onestà intellettuale, oltre che naturalmente con la coscienza di avere messo qualcosa di importante al riparo dalla morte. In casi come questi noi che veniamo dopo amiamo l’onestà non perché possiamo trarre vantaggio dalla debolezza che comporta in chi la professa, ma perché la persona onesta ci ha consentito di andare di un passo più vicini al vero; è dunque una gratitudine vera e in qualche modo pulita.

 

Alla ripugnanza ebraica verso la proposizione dichiarativa si deve ricondurre la preferenza accordata da Wittgenstein all’aforisma in forma di domanda; e per lo più non si tratta di domande retoriche. (Come se porre una domanda su cui si è realmente incerti fosse già un modo, e anzi forse il solo modo, di filosofare. Nella dicotomia delle possibili risposte sfumano le categorie logiche di Aristotele. E’ l’ambiguità il solo modo di sfuggire al «sistema»?).

 

La difficoltà principale dello scrivere in una lingua che non è la propria consiste nella maggiore forza della deriva del linguaggio, quell’energia interna alla lingua che ci porta ad assecondarne le strutture interne rinunciando, per pigrizia o incompetenza, a piegare invece le parole per enunciare, con la massima precisione e perspicuità, la proposizione significativa.

 

5.9.1999. «Gebrochen das Aug’, siehst du den Blick?» (Parsifal). L’orrore nasce dal contrasto fra l’occhio, ridotto a cosa inanimata, e lo sguardo. Ma anche nell’improvvisa coscienza che quello sguardo aveva valore. La coincidenza istantanea di queste due consapevolezze spinge Parsifal a spezzare l’arco e coprirsi gli occhi (non a caso).

 

Ci sono nella vita reale momenti così importanti, che istintivamente e senza rendercene ben conto ci meravigliamo dell’assenza di una colonna sonora.

 

Ippolito e Parsifal, accomunati dalla resistenza alla donna; ma Parsifal lotta contro se stesso. Solo i più sensuali possono vincere sulla sensualità.

 

6.9.1999. Rilevanza ermeneutica del fatto che le barzellette spiegate non fanno più ridere. La critica letteraria ha spesso, per sua natura, un analogo effetto distruttivo (ciò che distrugge sul piano dell’efficacia, può però recuperarlo sul piano teorico e filosofico in generale; solo così dalla letteratura si può imparare qualcosa).

 

Il piacere della letteratura è legato alla brachilogia; alla capacità del lettore di afferrare una parola sintetica, che riassume un percorso lineare o condensa, come i raggi di una ruota, le connotazioni in una sola isotopia.

 

7.9.1999. Basta chiudere gli occhi in una stanza silenziosa per sentir vacillare la certezza dell’Io.

 

Esiste un momento preciso per la scrittura, quando l’idea è abbastanza giovane da trarre vantaggio dalla formulazione scritta. Quando è cresciuta troppo e fa parte dei concetti acquisiti, riprodurla su carta può solo annoiare.

 

Due estensioni del lavoro: logica simbolica in Kafka, Kafka e le prime sei proposizioni del Tractatus.

 

In C., tipica unione di sfortuna e sbadataggine. Gli occhiali schiacciati sedendosi nell’auto.

 

Tutti questi innumerevoli ricordi nella mente, che nel momento della fine scompariranno senza lasciare la minima traccia. E anche i pochi passati nella scrittura, nessuno li interpreterà.

 

8.9.1999. Il Tractatus è un esempio eminente del pensare per frammenti. L’unico lavoro aggiuntivo, per così dire metafilosofico, è stato l’ordinarli gerarchicamente.

 

Quanto ha contribuito al successo del Tractatus la sua forma? E’ pur sempre una questione di visibilità.

 

La menzogna, tutto sommato, fa parte della modernità. E’ per questo che l’onestà intellettuale, quando è portata agli estremi, dà all’opera il sapore della classicità.

 

Un’interpretazione di Kafka deve evidenziare lo spazio logico del testo, enunciare le connessioni logiche che nel testo sono già presenti, non spiegare cosa quelle connessioni potrebbero significare. Già così la trama è fittissima, già dal confronto formale possiamo imparare molto.

 

Dovrebbe essere chiaro che la relativizzazione della logica aristotelica non invalida in nessun modo le scienze naturali; nessuna magia può più aver luogo, nessun soprannaturale. L’obiettivo (provvisorio) è una lucidità sufficiente a intravvedere la trascendenza delle cose; si vedrà poi con più trasparenza che la logica aristotelica non costituisce le fondamenta del pensiero scientifico (nel senso in cui le fondamenta lo sono per una casa) ma solo una modalità trasversale che ne consente la dicibilità.

 

La conversazione quotidiana presuppone la capacità di mantenere il linguaggio alla sua convenzione di superficie, il che esclude subito l’intenzione di usarlo in modo referenziale (cioè per parlare di cose vere). Come mostra il caso di Wittgenstein, quando tale capacità manca la conversazione è quasi impossibile.

 

La stufa di Wittgenstein (TB 8.10.1916) e il tavolo di Kafka (TB 15.2.1920) definiscono il medesimo progetto, uno sul piano filosofico, l’altro sul piano di una visione del mondo che possa fondare una nuova sostanza della letteratura (il che è qualcosa molto più in alto di un semplice piano letterario).

 

9.9.1999. La contingenza assoluta è una possibile descrizione filosofica della quotidianità kafkiana.

 

Se una proposizione ha bisogno di una o più altre proposizioni per essere correttamente analizzata, non si tratta forse di un’unica proposizione, diversamente articolata? (Ciò implicherebbe che la proposizione venga definita come l’unità di comprensione logica).

 

10.9.1999. Le frasi corrette del linguaggio comune sono iperdeterminate (e questo spiega perché possiamo comprendere lo straniero che si esprime in un italiano approssimativo: riempiamo i buchi con facilità). Il numero minimo di elementi necessari alla comprensione varia con il livello del linguaggio; nel caso estremo della Scrittura, neppure un fonema è inutile alla definizione del/dei senso/i.

 

La scrittura aforismatica è più intensa ma più difficile, perché le manca un connettivo che indichi la direzione di lettura. Per questo tale direzione deve essere per dir così segnalata in ogni singolo aforisma. (Un po’ come nella musica di Bach per violino solo, dove il virtuosismo compositivo risiede nel mantenimento di un’assoluta trasparenza dell’impianto armonico nonostante l’assenza di un basso continuo).

 

15.9.1999. «Die Dir zugemessene Zeit ist so kurz, daß Du, wenn Du eine Sekunde verlierst, schon Dein ganzes Leben verloren hast, denn es ist nicht länger; es ist immer nur so lang wie die Zeit, die Du verlierst» (Da Fürsprecher, nel Textträger Ein junger Student).

 

19.9.1999. Talvolta capita di prendere improvvisamente coscienza del fatto (in sé banale) che gran parte – o la quasi totalità – della nostra cultura; le parole e le frasi di cui essa è fatta; che tutto ciò è linguaggio di persone morte da un tempo più o meno lungo.

 

Il piacere del testo è spesso una connotazione privata, o comunque segreta, che nessuna spiegazione formale varrà a sostituire (ed è per questo che tanta critica è inefficace ad aumentarlo).

 

L‘origine di Medice, cura te ipsum: cfr. Midrash Rabbah – Gen. XXIII, 4: «‘Physician, physician, heal thine own limp!’ retorted the other. ‘Have you kept apart from Eve a hundred and thirty years for any reason but that you might not beget children by her!».

 

20.9.1999. Ma è proprio vero che le proposizioni della logica non dicono nulla? Se affermo che o piove o non piove, comunico in realtà una grammatica del verbo piovere (non per tutti i verbi la proposizione sarebbe vera). (Ma andrebbe detto meglio cosa si intende per proposizione logica).

 

Ieri sera: vedere un sorriso / suscitare un sorriso.

 

La tendenza a fraintendere Wittgenstein per semplificazione deriva dalla convinzione che il linguaggio oscuro sia solo una convenzione (come nel caso della letteratura filosofica – e anche critica – corrente). E così lo si traduce – ma appena lo si è fatto, sorge subito il sospetto di averlo frainteso, perché si intuisce la necessità di questa oscurità.

 

21.9.1999. «Io sono colui che era prima che il mondo fosse,

Io sono colui che è dopo che il mondo fu,

Io sono colui che sarà dopo che il mondo sarà stato»

(Preghiera del mattino, cit. in J. Eisenberg e A. Steinsaltz, Il candelabro d‘oro, Genova 1998, p. 73).

 

Una cosa è abbastanza chiara: l’esistere non può essere fondato linguisticamente (a meno di non voler finire nei quartieri popolari dell’idealismo o dello scetticismo). Ontologia e linguaggio devono avere statuti separati.

 

23.9.1999. L’Io o c’è per tutti o non c’è per nessuno. E’ un’illusione pensare che si vive, soli individui autentici, in un mondo di «maschere sinistre» (cfr. la Terza Inattuale). E’ solo, al massimo, una differenza quantitativa (e non ontologica) di complessità.

 

27.9.1999. «Lo sapeva già S. Agostino quando dice: cosa, tu, verme, non vuoi dire un nonsenso? Ma dì pure un nonsenso, non fa niente!» (L. Wittgenstein, citato in M. De Carolis, Una lettura del «Tractatus» di Wittgenstein, Napoli 1999, pp. 70-71).

 

«Non avere un unico significato equivale a non averne alcuno» (Arist., Metaph. IV, 1006b).

 

10.10.1999. Parlare di «morte» è una devianza linguistica, oppure un classico caso in cui la lingua crea entità inesistenti sulla base di un equivoco logico. A rigore, si dovrebbe parlare di due stati, essere vivo/essere morto, e dei loro rapporti. Allora si comincerebbe a sospettare che il problema riguarda soltanto la soggettività del corso temporale, e il problema dell’Io.

 

18.10.1999. Il double bind è questo: il fatto stesso di operare una sintesi fra due logiche ti colloca in una delle due, impedendo così ogni collegamento con l’altra.

 

10.11.1999. Su Wittgenstein e Hitler: K. Cornish, The jew of Linz, London, 1999.

 

11.11.1999. «canorum et facundum quoddam silentium veritatis» (Agostino, De libero arbitrio, II, 139).

 

22.11.1999. Fare della propria vita un’opera d’arte: un obiettivo che trascura il carattere aperto e indominabile di ogni biografia reale. In letteratura invece tutto (tranne il talento) è in nostro potere.

 

Lo statuto letterario potenzia l’evento narrativo, che nella realtà avrebbe in noi una minore risonanza emotiva.

 

Šiur qomah, e anche la descrizione dei santuari nella prima letteratura mistica: importanza della grandezza fisica nella teofania (cfr. I sette santuari, trad. di E. Piattelli, Milano 1990, pp. 78-79).

 

Nello stesso testo: il dubbio ineliminabile a proposito della purezza rituale (pp. 83-84 e 109), una impurità che sfiora persino gli angeli (pp. 116-117); l’importanza dell’andare a tempo, senza tardare o anticipare (pp. 110-111, p. 118).

 

Nel trattato delle Berakhot, lunga sezione sui sogni (Il trattato delle benedizioni, a cura di S. Cavalletti, Milano 1982, da p. 362). «Disse R. Johanàn, a nome di R. Shimòn ben Johaj: Come non è possibile che ci sia grano senza paglia, così non è possibile che ci sia un sogno senza cose vane» (p. 362, citato anche da Shi’va Hekhalòt Hattum’a, in: I sette santuari, cit., p. 128). Principio ermeneutico generale della Traumdeutung ebraica: «Tutti i sogni seguono la bocca», vale a dire acquisiscono il loro significato dall’interpretazione, senza la quale sono come una lettera non letta (ibidem). Il principio viene fondato in modo scritturale da Gen. 41, 13 («Avvenne secondo quanto Giuseppe ci spiegò». Cfr. id., p. 366).

 

4.12.1999. In Kafka, alternanza di narrazione e loquela (fondare quest’ultimo concetto, che viene trasferito in letteratura dal contesto erotico in cui lo colloca Barthes nei Frammenti, il quale lo aveva a sua volta preso da S. Ignazio).

 

Chi è che realmente parla nella pubblicità? (Non il pubblicitario che l’ha inventata, perché le sue parole non sono certamente scelte a caso).

 

23.12.1999. «'Ennoe‹n sunecîj pÒsoi mn „atroˆ ¢poqn»kasi, poll£kij t¦j Ñfràj Øpr tîn ¢rrèstwn susp£santej» (M. Aurelio, IV, 48).

 

24.12.1999. Per documentare il rapporto di Kafka con M. Aurelio, cfr. la lettera a O. Pollak del 10.1.1904.

 

31.12.1999. Pensieri buttati via, idee dimenticate.

 

«Kaˆ º sÚndesij „er£» (M. Aurelio, VII, 9). E poiché sacro è il fondamento del mondo, ciò equivale ad affermare che ogni cosa è Sachverhalt (come poi Wittgenstein quasi diciassette secoli dopo).

 

 

 

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