Email me at: mauronervi@tin.it

 

 

2000

(1996 - 1997 - 1998 -1999 - 2000)

 

5.1.2000. S. Agostino e la bellezza come numero: De libero arbitrio, XVI, 42.

 22.1.2000. Kafka e M. Aurelio: II, 14 (la vita perduta); V, 36 (la trottola). IX, 15: l’indifferenza delle cose, e il filosofo come legislatore dei valori. VI, 37 e IX, 14: principio lucreziano dell’eadem sunt omnia semper. VII, 9 («kaˆ ¹ sÚndesij ƒer£») : l’importanza filosofica del Sachverhalt. E infine, sintetico e mirabile è VII, 21: «™ggÝj mn ¹ perˆ p£ntwn l»qh, ™ggÝj d ¹ p£ntwn perˆ soà l»qh.»

 30.1.2000. Ambiguità di «Ho fermo il core in petto». Il coraggio di Don Giovanni è funereo, l’assenza di paura è anticipazione dell’atarassia cadaverica, è una prolessi della quies che sta per sopraggiungere.

 10.2.2000. Per il tema di «Weg-von-hier», cfr. T. De Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, Milano 1992, p. 56.

 «Daß ich lärme, wird an dir nicht lauter,

wenn du mich nicht fühltest, weil ich bin.

Leuchte, leuchte! Mach mich angeschauter

bei den Sternen. Denn ich schwinde hin.»

                   (R. M. Rilke, An den Engel)

 Un altro punto di contatto fra la guerra e la medicina (oltre a quello mirabilmente denunciato da Voltaire) è il loro essere a pari merito al vertice delle forze che cambiano concretamente la realtà.

 14.2.2000. Il vecchio problema decadente del rapporto tra arte e vita assume, in questi tempi di esplorazione linguistica, una sfumatura del tutto nuova. La felicità della vita ricalca l’adeguamento al modello della finzione; si sovrappone la retorica dell’arte al modello aperto della vita reale. In questo sforzo assurdo (perché i due linguaggi sono, a tutti gli effetti, incommensurabili) sta la radice di molta infelicità.

 16.2.2000. Ciö che non si puö dire: l’intero apparato concettuale dei mondi possibili è minato dalla semplice osservazione kafkiana: «Tutto ciò che è possibile, succede già». Si obietta: ma la semantica dei mondi possibili non descrive come è il mondo, bensì come funziona il linguaggio ordinario. Ma allora il contrasto del linguaggio con la realtà trasferisce sulla teoria anche la vaghezza e l’opacità semantica dello strumento.

 D’altra parte, il linguaggio ordinario è non solo impreciso (una sofferenza che potrebbe essere alleviata dalla formalizzazione logica) ma soprattutto incoerente. Il diverso grado di attenzione allo strumento linguistico nei diversi momenti in cui lo si usa fa sì che la pertinenza contestuale possa, in ogni momento, essere contraddetta da un’analisi linguistica più rigorosa. L’estrema attenzione a «ciò che si vuole propriamente dire» porta al nichilismo linguistico.

 19.2.2000. Qual è lo scopo? Descrivere il linguaggio ordinario comporta l’accettazione del «punto di vista comune», che viene considerato a priori il criterio per validare la teoria. Se invece si tratta di chiarificare il linguaggio mostrandone l’aporia logica (una lotta corpo a corpo contro il linguaggio ordinario) nel tentativo di vedere le cose come realmente stanno, il punto di vista comune non è più parametro di giudizio, ma piuttosto oggetto di dissezione. La confusione fra questi due tipi antitetici di ricerca sul linguaggio continua tuttora (cfr. P. Casalegno, Filosofia del linguaggio, Roma 1997, p.262).

 27.2.2000. Già annotato una ventina d’anni fa su una copertina nietzschiana:

«Denn der Mensch verkümmert im Frieden,

müßige Ruh ist das Grab des Muts.

Das Gesetz ist der Freund des Schwachen,

alles will es nur eben machen,

möchte gern die Welt verflachen,

aber der Krieg läßt die Kraft erscheinen,

alles erhebt er zum Ungemeinen,

selber dem Feigen erzeugt er den Mut.»

            (F. Schiller, Die Braut von Messina, III, 605).

 7.3.2000. L’obiettivo è abbandonare una interpretazione letteraria del testo, e pervenire a una visione logico-filosofica di esso.

 La polivalenza ermeneutica – molto più che semantica – del testo kafkiano è la sua peculiare forma di ricchezza. Non la pluralità di enunciati interpretabili, e neppure le polemiche interpretative sul singolo enunciato, ma la molteplicità di strutture ermeneutiche su ogni frase moltiplica l’ampiezza del testo, trasversalmente al testo.

 11.3.2000. «Und alles ist Frucht, und alles ist Samen» (Braut von Messina). Sempre, di fronte a situazioni così orribili, dove il male diventa visibile e insostenibile, bisogna ricordare questa parola di Schiller, che non è di consolazione ma di giustizia.

 La debolezza della linguistica cognitiva consiste nel trascurare il fatto che le distinzioni stanno nel linguaggio quando esso è chiaramente espresso, e non nella mente del parlante (e nemmeno nel mondo). E’ il linguaggio che «insegna le differenze» e mette ordine nel caos. Anche questo voleva dire Wittgenstein affermando che «tutto ciò che può essere detto, può essere detto chiaramente». E’ una confutazione ante litteram del cognitivismo.

 12.3.2000. «Nudus, vigil, ardens totus, / condensat ieiunia». Ma poi: «Ad quem venit Rex e caelo». C’è in questo corrispondenza perfetta con l’osservazione rilkiana: «Nur dem Einsamen wird offenbart».

 15.3.2000. Ciò che chiamiamo male spesso non è altro che una piccola infiltrazione di caos (e cioè: di primitiva verità) in quel grande spettacolo illusionistico di ordine e di semantica organizzato dal linguaggio, che è, in realtà, il vero noàj di Anassagora. «E’ orribile», ciò spesso significa solo: «il mio linguaggio non prevedeva questo».

 Struttura importante e originale del paradosso dell’oracolo nella Braut von Messina. L’esistenza di due oracoli apparentemente contraddittori si spiega con uno slittamento temporale: Beatrice prima riconcilia i fratelli, poi ne causa, involontariamente, la rovina. Isabella è giustificata nello scegliere l’oracolo favorevole e conseguentemente salvare la figlia; peccato che non capisca che, adempiendo un oracolo, non impedisce il realizzarsi dell’altro. Meno giustificato è il marito, per l’usuale inconguenza familiare ai lettori di Edipo, incongruenza che prevede la fede nell’oracolo e contemporaneamente la fiducia di poter sfuggire alla predizione. L’eremita che pronuncia l’oracolo favorevole contraddice con il gesto la sua parola; una discrepanza fra dire e mostrare che teatralizza, forse per l’unica volta, l’ambiguità dell’oracolo.

 23.3.2000. Cultura dell’oggetto e cultura della funzione; come nell’alternativa soggetto-predicato, o nel contrasto fra sensibilità visiva e uditiva.

 25.3.2000. La vera traduzione di «orribile» è: «senza linguaggio», l’esperienza ci coglie in un punto vuoto della trama di parole, è un buco, più o meno ampio, nella ragnatela; per questo ciò che è orribile non è, per principio, comunicabile (manca infatti il mezzo stesso della comunicazione); e per questo non è neppure consolabile (per lo stesso motivo di prima, ma nella direzione opposta: non possiamo parlare, ma nemmeno udire). La sofferenza per ciò che si perde è moltiplicata dalla mancanza delle parole pronte per oggettivarla. L’elaborazione del lutto consiste appunto nel riparare il buco della ragnatela, costruire parole nuove che assumono valore definitorio, oppure stirando e riadattando parole vecchie ai margini del buco linguistico, per coprire il vuoto (ne risulta però naturalmente un’asimmetria dei margini che sarà riconoscibile in futuro). Solo a quel punto saremo di nuovo accessibili alle parole degli amici, avremo di nuovo con loro un tessuto linguistico comune. Certo, esistono persone che, avendo particolarmente chiara questa specie di storia naturale dell’orribile, pongono a se stessi come un dovere etico la necessità di mantenere il buco nella ragnatela, a futura memoria.

 E l’efficacia della tragedia antica consisteva proprio in questo: nell’approntare una confortevole rete di parole per accogliere in essa il corpo in caduta libera dell’evento tragico, come si accoglie un acrobata che cade dal filo. Se il protagonista tragico trova subito le parole, ci si conforta all’idea che sia possibile un’elaborazione del lutto per così dire istantanea. Naturalmente è qui  che lo spettatore misura la distanza tra finzione e realtà. (Niente catarsi, dunque).

 4.4.2000. Hlitharendi e Praga, nella stessa notte fra il 22 e il 23 settembre 1912.

 16-23.7.2000. Sangineto, Capo Palinuro, Marina di Camerota.

 16.7.2000. Per una grammatica della Rumpelkammer: la stanza di Gregor, la camera di Block, la soffitta del cacciatore, la stanza di Brunelda,… Nel Bastonatore c’è una specie di compiacenza onirica nel far coincidere l’esistenza mentale della Rumpelkammer con la sua apparenza fisica: la supposizione di K. è confermata dalla realtà. Non così però alla seconda apertura della porta: K. si aspetta il buio e invece si scontra con la ripetizione.

 La risatina dietro la porta nel primo capitolo è qui un lamento, che si ripete per conferma (importanza, in tutto questo capitolo, della ripetizione: fra l’altro, i fattorini sono due).

 Cosa sarebbe successo se prima di aprire la porta K. avesse chiamato il fattorino, secondo la sua prima intenzione? Kafka si facilita qui il gioco narrativo facendo leva sull’impazienza di K. (travestita, nel caso specifico, da curiosità); sarebbe stato imbarazzante sottoporre la visione della Rumpelkammer alla prova devisiva dell’intersoggettività. (Non è una prova insuperabile; come provano molti altri luoghi kafkiani, la coerenza narrativa del testo è talmente forte da potersi camuffare come principio di realtà). Ma questo capitolo è un caso particolare; come nel primo capitolo, e come sarà nel duomo, di nuovo K. è solo di fronte al tribunale. Il ritmo narrativo (qui: il comico, pugilistico uno-due che la ripetizione infligge al compassato Josef K.) non ammette spettatori in qualità di terzi incomodi.

 Testa curva dei sorveglianti per la bassezza del soffitto: cfr. in galleria alla prima udienza, e il prete nel duomo. Ma anche i ritratti dei giudici: cfr. Deleuze e Guattari.

 Il materiale scrittorio nella Rumpelkammer.

 Solo qui, dopo aver sperimentato che la sua deposizione all’udienza ha avuto efficacia sulla corruzione dei sorveglianti, K. giunge all’idea di poter punire gli alti funzionari del tribunale.

 Ingenuità di K., che insiste a misurare con lo stesso metro lo spazio logico della Rumpelkammer e quello esterno non solo alla Rumpelkammer, ma addirittura alla banca stessa (questo quando cerca con gli occhi la fidanzata di Franz sulla strada).

 L’uscita sulla strada: davanti alla banca con lo zio, l’epilogo del primo capitolo, qui sulle scale esterne.

 Distratto – privo di pensieri (zerstreut – gedankenlos).

 17.7.2000. Il cortile interno come estensione inanimata della Rumpelkammer. (Porta della Rumpelkammer / Finestra cortile; grido di Franz / abbaiare del cane).

 Ripetizioni: a) la macroripetizione della Rumpelkammer; b) i due lamenti all’inizio; c) i due fattorini (i quali a un certo punto arriveranno anche «a pochi passi di distanza l’uno dall’altro»); d) il bastone che si alza e si abbassa regolarmente; e) la duplice implorazione, prima di Willem, poi di Franz; f) il copialettere.

 Rapporto fra K. e il bastone: lo esamina, lo ferma abbassandolo.

 Sequenza spaziale del Bastonatore:

1.      Primo giorno:

1.1  Prologo nel corridoio / Prima apertura porta

1.2  Rumpelkammer - Corridoio / Prima chiusura porta – Apertura finestra

1.3  Corridoio – Cortile / Chuisura finestra

1.4  Strada

 

2.      Secondo giorno:

2.1  Corridoio – Rumpelkammer / Seconda apertura e chiusura porta

2.2  Stanza dei fattorini

2.3  Strada

 

Tempo in due.

Il riepilogo sintetico, in 2.1, della situazione in 1.2 scarica sulla seconda chiusura l’accumulo pulsionale che la narrazione di 1.2 diluiva in extenso. (Opposizione fra «wie aus Gewonheit...» e «... als sei sie dann fester verschlossen»).

K. si trova permanentemente in errore nel valutare le gerarchie; così il bastonatore viene considerato il più canaglia, mentre invece è proprio il «compito disumano» affidatogli che garantisce la sua vitalità e superiorità.

Dualità uomo in cravatta / uomo in cuoio. Il tentativo di addomesticare la pulsione sadica attraverso un mezzo sociale e borghese come il denaro si scontra con il ruolo affidato al bastonatore, ruolo che è la sua stessa sostanza narrativa. Qui non è questione di soldi. K. sbaglia, non c’era nessun brillare degli occhi.

18.7.2000. Un bastonatore non può mai essere grasso. La punizione è affidata qui (ma non nell’ultimo capitolo) alla forza positiva dell’animalità, alla pantera del Digiunatore. Il braccio punitivo del tribunale si differenzia dalla magrezza ascetica, ma anche dalla pulsione bulimica dei sorveglianti: pelle abbronzata da marinaio, viso «fresco e selvaggio», ma soprattutto il sorriso con cui respinge l’intercessione di K. Questo sorriso merita una riflessione attenta. Il bastonatore sorride non per le parole di K. (per quanto inadeguate queste siano, e dimostrino la sua ignoranza della logica del tribunale) né tanto meno per ironia o Schadenfreude nei confronti dei sorveglianti; ma per quella reazione di superiorità pudica che è istintiva nella bellezza quando essa sia avvicinata da un approccio importuno. K., che è qui il borghese in cravatta, tenta goffamente di contrastare la bellezza vitale della punizione: ma non è il suo tentativo a suscitare il sorriso, bensì il fatto stesso di venire a contatto verbale con il bastonatore, il quale è di conseguenza costretto a dare spiegazioni: «Il castigo è giusto e inevitabile».

Importanza, nel corso del Processo, di questo tema: Josef K. come rappresentante del buon senso borghese che tenta sempre di mediare le realtà creaturali con cui viene a contatto (l’eros, la morte). Quando K. spalanca la porta, viene meno il rito (il matrimonio, il funerale); interviene la cosa in sé, deconcettualizzata, o per dir meglio strutturata secondo una logica incomprensibile a K. (per quanto a lui non del tutto aliena: altrimenti K. non aprirebbe le porte!).

La forza vitale di cui si serve la legge nella persona del bastonatore è distinta dalla legge stessa (che non ha niente a che vedere con l’animalità), ma rientra ancora nel suo spazio logico: il bastonatore ragiona per acta, e l’unica inferenza che fa (vedi sotto) è assurda in base al logos usuale, ma anche significante nell’ordine di pensiero del tribunale, perché la grassezza di Willem è conseguenza esclusiva della sua condotta colpevole.

Per l’inizio: un errore di lettura del ms. An-/Ausgekleidet.

E’ naturalmente inverosimile che Willem sia grasso solo perché ha l’abitudine di mangiare la colazione degli arrestati. Ma la sua golosità compulsiva ha significato per il bastonatore unicamente in quanto ha spinto il sorvegliante al comportamento colpevole. La parte vale qui per il tutto: poiché divorare la colazione degli arrestati è l’unica causa colpevole della grassezza di Willem, ne è anche l’unica causa tout-court. Tipicamente, il sillogismo è reso falso (beninteso dal punto di vista della logica usuale) dall’amplificazione emotiva e ammonitoria delle sue premesse.

Un errore (fra i tanti) nella riflessione di K. alla finestra: essere bastonati non è un punizione per gli arrestati, ma solo per chi fa parte del tribunale: non valgono «disposizioni particolari». Per gli arrestati la punizione appartiene a un piano non confrontabile con questo, e per due motivi: è una punizione che comporta la morte, ed è eseguita da un principio inorganico, non dalla vitalità di un bastonatore.

La ripetizione è inoltre elemento formale comune all’atto inibito e alla falsa partenza: sono entrambi costituiti da un duplice movimento sulla stessa linea, un’andata e un ritorno. (Differendo soltanto per l’estensione del movimento).

Lo Schmutz della Rumpelkammer: vedi, sul tema, la lettera a Milena (e i testi correlati). Qui, un fattore accessorio che conduce allo scoppio di insofferenza di K. è ancora una volta la ripetizione: la sporcizia si può accettare per una volta; accettarla due volte significherebbe rassegnarsi alla convivenza. (Inoltre, diventa qui esplicita l’equivalenza tribunale/spazzatura).

La riflessione alla finestra. Due punti di partenza: 1. K. avrebbe voluto/dovuto impedire la punizione, perché questa doveva semmai essere inferta ai giudici superiori (questo «perché» è fra l’altro un’inferenza molto debole, viziata dal desiderio di rivalsa); 2. d’altra parte, la mancanza di autocontrollo da parte di Franz ha agito in senso contrario a tale piano, scagionandolo dalla colpa. Ora, per quanto riguarda 1., si deve osservare che: a) la pretesa di K. che ad essere puniti siano i giudici superiori esige la possibilità (contraddittoria) che subisca la punizione la stessa istanza che la emana; b) K. immagina che il mezzo per raggiungere questo scopo (e cioè l’elargizione di denaro al bastonatore) sia il primo passo per combattere la corruzione; in altri termini, ritiene che fra corrompere e voler punire i corrotti non ci sia contraddizione. Questo àlogon prende forma comicamente esplicita nella sua riflessione: «K. non avrebbe fatto economia, liberare i sorveglianti gli stava veramente a cuore: dato che aveva intrapreso a combattere le storture di questo tribunale, era naturale che si desse da fare anche da questo lato». Senza rendersi conto quindi che la sua volontà risanatrice è comunque fuori strada, K. ritiene tuttavia che il grido di Franz ne abbia comunque impedito l’attuazione. Su questo, che è il punto 2., K. dapprima giustifica la chiusura della porta con un’iperbole: rendere pubblica la contrattazione con il bastonatore è un’umiliazione pari alla stessa bastonatura. Da qui, con un secondo àlogon, K. procede a una fantasia di autopunizione nella quale letteralizza l’iperbole (secondo una caratteristica progressione onirica) e contemporaneamente la nega nelle sue premesse: il bastonatore non avrebbe accettato di punire K. perché da un lato avrebbe mancato di punire i sorveglianti, dall’altro avrebbe violato l’intangibilità dell’imputato (colpa quindi per omissione e per abuso di posizione al tempo stesso). Tirando le somme, il conto non è ancora pari: rimane la spinta a Franz, giustificata solo in parte dallo stato emotivo di K. – Mentre il primo àlogon deriva dalla borghese ambiguità che K. esibisce nei confronti del denaro, il secondo ha invece un’origine più sottile. Non c’è palese contraddizione, ma una specie di deriva del pensiero che nella fantasia rivendicatoria fa passare, sotto le mentite spoglie della solidarietà nei confronti del sorvegliante, il proprio desiderio masochistico di punizione. L’impossibile scambio fra i sorveglianti e Josef K. è in realtà solo una formazione di compromesso fra la censura moralistica nei confronti del tribunale (una censura che proprio perché incongrua è entusiasticamente condivisa dai sorveglianti bastonati) e il suo desiderio latente di essere punito dal bastonatore, completando così con l’uomo in cuoio la classica funzione a due sadomasochistica che era fino ad allora insatura. (Tale desiderio, che in ogni momento della narrazione in questo capitolo minaccia di lacerare il sipario della censura, è tra l’altro il vero motivo della agitazione di K. – quest’ultima, dunque, non può evidentemente giustificare nulla, perché nasce anch’essa da un desiderio colpevole).

19.7.2000. La duplicazione dei lamenti nella scena introduttiva riproduce la macrosequenza del capitolo: anomalia – dubbio della ragionevolezza – conferma.

Il più alto grado gerarchico del bastonatore (in altri termini: la sua maggiore vicinanza alla legge) si manifesta anche nella sua minore loquacità rispetto ai sorveglianti. Deve eseguire un compito non verbale, e fa parte della sua efficienza l’eseguirlo alla svelta. I sorveglianti hanno invece l’interesse contrario, cercano in ogni modo di dilazionare con la parola l’esecuzione. Quando il bastonatore decide di chiarire un punto a Josef K., non tollera tuttavia intromissioni dialettiche dei sorveglianti: «Tu non devi stare a sentire, ma spogliarti».

Volere/potere. La funzione s/m è insatura perché i sorveglianti non vogliono essere puniti, mentre K. non può  esserlo. Ma il punto di vista della legge riguarda ciò che è possibile, e possibile – come risulta dai diari – è solo ciò che accade già. L’universo kafkiano esclude a priori una semantica dei mondi possibili. La pena adeguata e possibile per un imputato non è la bastonatura – che implica movimento, violenza, combattimento – ma l’uccisione silenziosa in una pietraia di periferia, «come un cane». (Cfr. su questo il Dantons Tod).

20.7.2000. A proposito della corruzione nei confronti del tribunale, vale sempre la risposta del guardiano della parabola: «Lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa».

Un bambino a Marina di Camerota si avvicina a noi sulla spiaggia e ci regala una manciata di sabbia dichiarando: «Tieni, sono pesci». Nessuno direbbe che il bambino abbia un’allucinazione; si direbbe invece che stia giocando. Ma il rapporto senso-referente qui non è banale; il bambino attribuisce al Sinn che ha in mente una Bedeutung sbagliata perché, nel gioco, la sabbia ha la funzione di «oggetto da donare» quale sono i pesci nel modello adulto che il bambino riproduce. Il gioco è qui la convenzione secondo cui il significato d’uso è legittimato a prevalere anche sul principio di realtà (ovvero, il gioco linguistico wittgensteiniano si identifica qui con il gioco tout-court); e il piacere del gioco consiste nella sopraffazione linguistica di questo principio, la cui forza inesplicabile sembra avere un ruolo importante nella costruzione del riferimento.

Da aggiungere, nel lavoro sul primo capitolo, la campana del processo di Block.

Se riuscissimo a fondare la nozione di semplicità (disponendola su un piano che ne decida la variazione quantitativa) potremmo forse affrontare meglio molti paradossi dell’interpretazione e della traduzione. (E anche la nozione di riferimento ne ricaverebbe il suo vantaggio).

L’esegesi della parabola è il passo del romanzo in cui più estesamente vene sviluppata la logica del tribunale. (Questa è anche l’opinione di Josef K., il quale commenta fra sé che la parabola «lo portava lungo pensieri inusuali, cose irreali, più adatte alla società dei funzionari di tribunale che a lui»).

L’irruzione della logica del tribunale nella vita (e nella logica) di Josef K. non solo è immediata e quasi casuale (giusto il tempo di aprire, wie aus Gewohnheit, una porta), ma condivide la naturalezza con cui insorge la devianza dalla regola nel famoso esempio di Wittgenstein. In entrambi i casi è rifiutata l’idea che ci sia una frattura della logica socialmente concordata (in altre parole: Kafka non è uno scrittore di letteratura fantastica); ma si postula che fin dall’inizio la logica era un’altra, e tutto il comportamento precedente è da considerare sotto una nuova luce. In termini più formali: una logica (come una regola) non può determinare una sequenza di eventi univocamente, perché la stessa sequenza è compatibile con infinite altre logiche.

La convinzione di K. (più volte derisa nel romanzo, ad esempio quando è condivisa dai due sorveglianti nel Bastonatore: «”E’ così”, gridarono i sorveglianti…»; o anche il «Bravo!» durante il primo interrogatorio) di essere al servizio di un principio, di lottare per una causa di comune utilità, è una fondamentale confusione di piani. L’esistenza in sé del tribunale in quanto preposto a una comunità non è mai espressa in forma obiettiva; ma esso esiste, per K., solo in quanto comunica (o per dir meglio significa, «semaìnei») nella sua direzione. C’è tensione, qui, fra l’ontologia e la semantica, dato che K. scommette sulla prima, mentre dovrebbe, molto più semplicemente, accettare la seconda. L’esistenza del tribunale non è fittizia, ma è solo significante: irradia senso, logicizza la vita falsamente razionale di K. E lo fa solo nella sua direzione: in questo senso, come si leggerà nella parabola, la porta aperta era aperta solo per lui.

Quest’ultima particolarità (che potremmo chiamare la dimensione privata della legge) è la ragione della sua cedevolezza, che abbiamo già osservato nel primo capitolo: è una legge per sua natura non cogente, perché non vale erga omnes, ma vive nel rapporto fra l’individuo e la sua porta, per il resto è sempre pronta a dire: fai quello che vuoi. Come osserva l’esegesi, l’uomo di campagna non è obbligato al suo sgabello, può andare dove vuole. – Non bisogna però neppure lasciarsi ingannare da questo rapporto apparentemente così individuale: esiste una dimensione collettiva che non si confonde con una dimensione comunitaria. Ed è anche questa (ma su un piano completamente diverso) cogente, come osserva l’uomo di campagna: «Tutti desiderano la legge».

21.7.2000. «C’è nu pesc’ piccolissimo con la coda a strisc’».

Il piacere della propria prestazione retorica è presente anche nel cliente italiano; ma è un piacere che K. deduce da osservazioni puramente comportamentali (nello specifico, i movimenti della testa). L’obliterazione, in lui, del rapporto segno/significato lascia intravedere unicamente il piacere puro dell’esibizione retorica. K., che è escluso dal flusso di senso, percepisce questo piacere come l’energia vitale di chi è al posto giusto nella propria lingua, la forza che deriva dalla certezza di un codice condiviso.

La tensione fra logica e retorica è costantemente in primo piano nei rapporti fra K. e il tribunale; non nel senso che esse siano suddivise fra i due contendenti, ma nel senso che ogni contendente ha in sé la tensione fra la propria logica e la propria retorica.

Se obiettivo della logica è la verità e della retorica la persuasione, la seconda dovrebbe essere al servizio della prima; in realtà, invece, la prima è sostanzialmente modificata dall’esercizio della seconda. La logica non resta mai indenne ogni qual volta K. dispiega i suoi mezzi retorici per difenderla.

Il contrasto di logiche è anche, conseguentemente e a un livello più superficiale, contrasto di retoriche. Ma la differenza più appariscente fra queste ultime è che la retorica di K. procede per accumulo progressivo di figure, quella del tribunale per progressiva sottrazione; la retorica del tribunale è collocata su un piano inclinato che la porta necessariamente a scivolare nel non-verbale, nella gestualità, nella significanza delle condizioni di stato: la si potrebbe definire una retorica della situazionalità.

Fuori orario. L’assenza di testimoni accentua il carattere privato della legge: le finestre di tutti gli uffici sono spente. La luce della lampadina che illumina il lavoro dei fattorini segnala per contrasto l’imminenza del buio totale, come le ultime candele sull’altar maggiore nel capitolo nel duomo.

« Sono pagato per bastonare, e dunque bastono». Questa è, fra l’altro, una epifania esemplare dell’antipsicologismo kafkiano: il personaggi è, senza residui, la sua funzione, nel bastonatore anche l’eventualità di lasciarsi corrompere presuppone un movimento psicologico inaccettabile. Il bastonatore non ha nome (a differenza dei sorveglianti), viene definito per quello che fa, si chiama «bastonatore» e dunque bastona, A è uguale ad A e dal principio di identità non si scappa.

La dimensione privata della legge si manifesta con chiarezza quando il prete – viene osservato esplicitamente – non si rivolge ai fedeli, ma enuncia con chiarezza dall’alto del pulpito, nel duomo deserto, il nome del protagonista. Il nome diventa il veicolo della privatezza, è attraverso il nome che la legge identifica. (Cfr.: «[K.] pensò con quanta franchezza prima aveva sempre pronunciato il proprio nome, mentre da qualche tempo era diventato un peso, e ora il suo nome era conosciuto da persone che vedeva per la prima volta; come era bello prima presentarsi e solo dopo essere conosciuto!»).

22.7.2000. (Ctrl nel lavoro sul primo capitolo l’osservazione su «Lei ha suonato?» e cfr. con R 317).

Alcune culture più di altre sono informate da una lunga esperienza di vita reale, e ciò le rende più scaltrite sulle questioni semantiche rispetto rispetto a molte filosofie; così è stato, per esempio, nel caso del napoletano Sraffa rispetto a Wittgenstein. (Questa non è solo una variante del detto di Amleto; ma è, per dir così, un riconoscimento della selezione naturale sulle strutture del linguaggio, dui processi di significazione, e, in ultima analisi, anche sulla autocoscienza di questi processi).

K. è collocato in un ordine gerarchico all’interno della banca, per cui può comandare a impiegati, fattorini e uscieri, deve obbedire al direttore ed è in rapporto paritario (e dunque antagonisticamente privilegiato) con il vicedirettore. Irrazionalmente, cerca sempre di applicare questa stessa struttura gerarchica a un oggetto radicalmente alieno come la legge: per questo la sua costante volontà di raggiungere  «i giudici superiori» (per di più sfruttando l’aiuto di terzi) è concepibile solo dal suo punto di vista, mentre la logica esibita dalla legge concepisce sì la gerarchia, ma su un piano trasversale, come se essa fosse immanente in ogni suo singolo rappresentante: per citare il passo di massima astrazione del romanzo, nella parabola il guardiano, pur essendo l’ultimo nella gerarchia dei guardiani, racchiude in sé tutto l’ordine gerarchico dei guardiani (e in effetti, quanto ai risultati, è evidente che li rende inutili); e la stessa esistenza dei guardiani di ordine superiore è posta in dubbio dalla esegesi.

«Ciò che mi preme è il principio». La capacità di sussumere comportamenti sotto un principio è caratteristica di K., mentre la legge verifica sempre ogni singolo caso, è per dir così seguace di un empirismo radicale. – Questa differenza assume rilevanza primaria quando si tratta di classi infinite. Per K. (e per il nostro buon senso aristotelico) una classe infinita è concepita come unitaria in base alla sua definizione: esiste cioè una regola, che ci consente di pensare la classe infinita come unitaria, e di operare con essa. Per la logica della legge, invece, non ha senso parlare di classe infinita se non contando i singoli componenti della classe e verificando che è necessario, per tale compito, un tempo infinito. Ciò che importa è che, nell’economia del testo kafkiano, questa seconda visione della classe è di norma vincente e obbliga K. a un conteggio compulsivo, sempre, contro la sua volontà; o per meglio dire, modificando a sua insaputa la sua stessa volontà.

Lo sforzo di orientamento di K. Si esercita sempre per piccoli aggiustamenti progressivi, seguendo sul piano narrativo lo stilema sintattico tipicamente kafkiano della correzione multipla («non….. ma…….; e neppure questo, ma…..» ecc.). In ripetute occasioni, K. prende subitamente coscienza della vistosa inopportunità di una sua credenza precedente: così qui nel caso dei fattorini, che K. pensava in un primo momento di costringere al lavoro di pulizia della Rumpelkammer nonostante l’ora tarda. Così anche nel rapporto con Titorelli: prima davanti al commerciante si rende conto «con spavento» di aver pensato seriamente a far venire in banca il pittore; poi quando realizza che anche lo studio fa parte delle cancellerie. (Altri esempi, un po’ migliori). K. tenta sempre di recuperare il terreno saldo del buon senso comune, della opportunità sociale: questo è il suo movimento caratteristico.

Ancora a proposito dello «sporco»: la Rumpelkammer è sporca doppiamente: prima di tutto nel senso usuale, perché il tribunale è costituito da pezzenti (cfr. l’esclamazione alla fine del primo interrogatorio), i quali si trascinano sempre dietro la connotazione della sporcizia; e poi perché così la censura definisce di norma i desideri dell’Es (i desideri «impuri»), che qui hanno messo particolarmente alla prova la struttura rigorosamente censoria della narrazione di superficie.

Discutere con C. il realismo magico in Sussurri e grida e il suo rapporto con l’«onirismo preso sul serio».

Può essere dubbio che le proposizioni non dichiarative siano decidibili in base alla dualità vero/falso; ma certamente lo sono sulla dualità sensato/non sensato (sinnig vs sinnlos/unsinnig).

Il contatto con la legge non è mai l’irruzione di un mondo desemantizzato: e questo è uno dei motivi profondi per cui Kafka non è mai unheimlich. (Ma è anche il motivo per cui tanti lo ritengono tale: per chi non è sensibile all’alterità, una logica altra è percepita semplicemente come assenza di logica, e dunque di segno).

Per adattarsi, almeno un attimo, alla metafora: il chiarore che erompe inestinguibile dalla porta della legge è ciò che inchioda l’uomo di campagna al suo sgabello, e K. al suo processo; è ciò che per contrasto rende buio il mondo rimanente. Ma il guardiano, che appartiene alla legge, proprio per questo le volta le spalle e non vede nessun chiarore. E’ l’alterità dell’uomo di campagna (e di Josef K.) a riassumere in quel chiarore tutta la positività della vita.

La pulsione sadomasochistica è in qualche modo inerente la vita del tribunale, come dimostra il titolo del romanzo osceno trovato da K. sulla scrivania del giudice.

Un’altra campanella è quella che manca sulla scrivania del giudice al primo interrogatorio, sicché K. deve picchiare il ripiano con un pugno.

23.7.2000. La logica ebraica sfugge anche al tentativo di essere formalizzata in una logica tout-court: ed è ovvio che sia così, altrimenti sarebbero due logiche pienamente comunicanti e interfacciate da un sistema formale che consente di ricavare le regole per passare dall’una all’altra: e questo vorrebbe dire avere una sola logica, non due. (Lo stesso gesto del formalizzare, del resto, è occidentale). Ancora bisogna trovare il medium che pur consentendo una parziale descrizione di entrambe ne mantenga (anzi ne metta in evidenza) la separatezza.

1.8.2000. «Filologia, infatti, è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un'arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo fatto è oggi più necessaria che mai; è proprio per questo mezzo che essa ci attira e ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un'epoca del lavoro, intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol sbrigare immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo» (Aurora).

5.8.2000. Altri tre passi in cui compare la Rumpelkammer: «... la Madame Recamier, wie dieses Möbel in meine Mansarde heraufgekommen ist weiß ich nicht, vielleicht wollte es in eine Rumpelkammer und blieb schon zu sehr hergenommen, in meinem Zimmer. Nimmermehr ist der Meinung, daß es so nicht ...»
http://www.kafka.org/nachlass2/ohe.html
«... durch die kleinen geschlossenen Seitenschubladen schon eingeengte offene Fach des Aufsatzes ist nichts als eine Rumpelkammer, so als würde der niedrige Balkon des Zuschauerraumes, im Grunde die sichtbarste Stelle des Teaters für ...»
http://www.kafka.org/tagebuecher/tb2.html
«... mir an der Mündung des Bergstein wieder die Gedanken an die spätere Zukunft. Wie wollte ich sie mit diesem aus einer Rumpelkammer gezogenem Körper ertragen? Auch im Talmud heißt es: Ein Mann ohne Weib ist kein Mensch...» http://www.kafka.org/tagebuecher/tb3.html

6.8.2000. Giulietta: una rosa avrebbe il suo odore anche se non si chiamasse «rosa». Se pure c’è un influsso di qualche teoria medioevale, resta sempre un importante anticipazione dei nostri dubbi semantici.

Una possibilità di descrizione di logiche antagoniste che rispetti le condizioni sopra enunciate passa per il concetto di classe infinita. L’enumerazione dei singoli casi non consente all’asintoto di raggiungere la retta, ma apre uno spiraglio alla comprensione.

9.8.2000. «Derjenige der mit dem Leben nicht lebendig fertig wird, braucht die eine Hand, um die Verzweiflung über sein Schicksal ein wenig abzuwehren – es geschieht sehr unvollkommen – mit der andern Hand aber kann er eintragen, was er unter den Trümmern sieht, denn er sieht anderes und mehr als die andern, er ist doch tot zu Lebzeiten und der eigentlich Überlebende. Wobei vorausgesetzt ist, daß er nicht beide Hände und mehr als er hat, zum Kampf mit der Verzweiflung braucht». Tagebücher, 19.10.1921.

15.8.2000. «El mundo es poco» (C. Colombo, cit. in: P. Boitani, L’ombra di Ulisse, Bologna 1992, p. 130).

20.8.2000. Quando gli affetti sono molti, il distacco da ciascuno di essi è più leggero. Ciò non toglie che quando li consideriamo nel loro insieme, possiamo percepire il lutto del commiato per ognuno di essi.

26.8.2000. L’abilità di vivere nello spazio e nel tempo è confrontabile a quella del pianista, che senza averne coscienza pone il dito giusto sul tasto giusto, e in quell’istante non percepisce (non ha il tempo di percepire) la difficoltà del gesto, la coincidenza di giuste disposizioni, la storia di un faticoso apprendimento, la sorprendente coordinazione che quel semplice gesto richiede.

30.8.2000. In ciò che è straniero (in ogni straniero, ognuno rispetto all’altro) percepiamo un’ombra di estraneità radicale, simile all’estraneità che proviamo verso l’inorganico. E anche l’inquietudine che ne deriva ha la stessa natura di quella che nasce dalla confusione fra organico e inorganico (o anche: dal timore che ogni organico sia, in realtà, inorganico).

La poesia come «a pheasant disappearing in the brush» (W. Stevens, Adagia).

26.9.2000. Senza donna, senza antenati, senza discendenti, in una casa che è un ricordo, davanti a un paesaggio che è un brusio di parole.

C’è un particolare pathos quando le qualità che dovrebbero essere favorite dall’evoluzione (la bellezza, l’intelligenza) vengono, per circostanze accidentali, sconfitte. Uno sguardo eccezionalmente intenso.

1.10.2000. Perché tanta letteratura intorno a un concetto in apparenza compreso anche dalle lavandaie? La verità, a rigore, non è neppure un concetto, ma solo un espediente linguistico per mediare l’esperienza della certezza. (Giustamente a quest’ultima, e non alla verità, Wittgenstein dedica la sua attenzione, negli ultimi giorni).

Come già notato, verità e certezza non sono termini puramente teoretici, ma comprendono (per così dire analiticamente) una sfumatura di positività che non è affatto accessoria; ma rispecchia l’importanza che la certezza ha rivestito nell’evoluzione e nella conservazione del sé. Come l’estetica per Nietzsche, anche la certezza ha per noi uno sguardo profondo. (In Götzendämmerung, «Streifzüge eines Unzeitgemäßen», 20: «Um seinetwillen ist die Kunst tief ...»: ma profonda è dunque anche un’arte fondata sulla lucidità dello sguardo, sulla piena perspicuità del testo, colma di ciò che si potrebbe chiamare il pathos della certezza).

5.10.2000. Alisso. Nei Frammenti di un discorso amoroso, manca questa importante loquela: «Mi rimpiangerai».

13.10.2000. «Il topo nel labirinto sembra imparare dall’esperienza, mentre in realtà è il labirinto a ricordare, non il topo» (D. Gabor, Models in cybernetics, 1956, cit. in V. Somenzi e R. Cordeschi, La filosofia degli automi, Torino 1994).

Dal Talmud: «Nessuna sporcizia viene dal cielo» (già annotata il 4.12.1993).

Il paradosso del Commendatore, secondo una versione del 9.1.1991. «Pentiti scellerato!». Una simile opportunità di pentimento, per di più offerta dal suo più acerrimo nemico (si ricordi sul monumento funebre: «… qui attendo la vendetta») e che spalanca improvvisamente al peccatore la salvezza per mano di chi ne ha desiderato fino a quell’istante la perdizione, è un’incongruenza teatrale clamorosa e apparentemente insanabile, e sembra incredibile che passi del tutto inosservata da tutti gli spettatori del Don Giovanni. Non era così, per esempio, in Tirso de Molina, dove il Commendatore si limitava a trascinare Don Giovanni all’inferno approfittando della sua ultima tracotanza (e compiendo così, linearmente, la promessa di vendetta), né in Molière, dove la salvezza e la perdizione sono offerte da due figure diverse. In Mozart invece (non per la prima volta, ma per la prima volta significativamente) vendetta e salvezza sembrano provenire dalla stessa mano, e questo è il vero paradosso. – Ma non è così, naturalmente: l’esortazione a pentirsi, con tutto il suo contorno di soprannaturalità, viene offerta a Don Giovanni nella piena certezza preliminare che essa verrà rifiutata. Quando esiste anche un minimo dubbio che il peccatore possa accettare una salvezza che gli viene offerta da una mano evidentemente ultramondana (che è come dire: in tutti i casi normali in cui ciò potrebbe accadere) allora tale opportunità evidentemente non si realizza; ma Don Giovanni è un’eccezione, e il cielo può concedersi questo spasso. Dunque, nel caso di Don Giovanni, c’è solo derisione, c’è un inganno divino nel quale il libertino ingenuamente cade subito. «Risolvi!» «Ho già risolto».

26.10.2000. Giorni fa, in una mansarda di Borgo Stretto: la finestrella che si affaccia sul piccolo colonnato di S. Michele, così vicino come sembrava impossibile dal basso. Il piccione morto sullo stretto davanzale esterno.

28.10.2000. La soluzione di un gatto che ama le carezze ma detesta farsi carezzare: strusciarsi contro la mano lasciata pendere dalla sedia.

2.11.2000. Solo saltuariamente l’intellettuale si rende conto che gran parte del suo linguaggio, nella componente connotativa, è un dono dei morti.

8.11.2000. Non è sufficiente dire che tutto scorre; bisogna aggiungere che tutto scorre via – e allora si percepirà il vero senso della frase.

9.11.2000. L’«evoluzione» è, ancora una volta, un concetto preciso la cui connotazione è compromessa dal lessico che la rappresenta. E’ l’inerzia dell’evoluzione che dovrebbe interessarci.

10.11.2000. Ciò che la filosofia chiama «io e mondo», la netta percezione di una separatezza fra conoscente e conosciuto è forse da ricondurre – in via di ipotesi – al fatto anatomico che le percezioni esterocettive e quelle propriocettive viaggiano su vie nervose completamente diverse.

12.11.2000. La differenza fra verità logica e verità pragmatica. La malattia non infrequente (- - A) è tuttavia meno frequente della malattia frequente; e analogamente, se sulla base di un celebre sillogismo dichiaro che il Re è un animale, la mia asserzione ha un valore aggiunto che non ha niente a che vedere con il modus ponens. La natura tautologica delle proposizioni logiche viene compromessa preliminarmente dal fatto che il parlante le sceglie; acquisiscono con l’atto illocutorio un surplus di significato che non risiede nell’enunciato, ma nel fatto preliminare di avere scelto quell’enunciato. (Questo potrebbe essere un argomento a favore dell’olismo semantico).

La difficoltà di collocare con esattezza l’illocuzione (e il rifiuto di Wittgenstein di prenderla seriamente in considerazione: Tractatus, 4.442) pongono il sospetto che non faccia parte a pieno titolo della logica dichiarativa. Può essere invece inserita nel quadro di una logica dove l’asserzione sia solo un elemento fra i tanti.

13.11.2000. Come dice K. nel Castello, non è consigliabile «von der Deutung das eigene Lebensglück abhängig machen». Un’ammonizione contro l’ermeneutica.

24.11.2000. In appendice al 26.8: e la filosofia è per l’appunto lo sforzo inesausto di disimparare proprio questa abilità. Non sorprende che all’occhio del parlante ordinario il filosofo sia qualcosa di meno (di inadatto alla vita, di estraneo alla realtà comune, di non-cresciuto-alla-prassi) dell’individuo comune, mentre non ci si accorge che quel meno deriva da una sottrazione, non da una mancata crescita.

25-30.11.2000: Bruxelles.

28.11.2000. A proposito di un passo da Roland Barthes par Roland Barthes (p. 71): certamente esiste la connotazione, mentre la denotazione, che è l’unico oggetto della filosofia del linguaggio, ci sembra dubbia e comunque difficile da definire. Eppure, giustamente osserva Barthes che è da essa, dall’etymon, che cerchiamo di risalire alla verità del linguaggio. Perché certezza e denotazione hanno questo in comune: che entrambe ci abituano, parlandone, al riconoscimento sociale.

«Au centre, quoi?» (p. 96).

28.12.2000. (S.) A. vede che la sua vita si perde e si perde (it fades and fades). A. si chiede allora se questo perdersi della vita riguardi davvero lui.

 

The Kafka Project 2.2 - Copyright Mauro Nervi © 1999, 2000 - Last updated 23rd December 2000